Giuseppe Conte (foto: depositphotos)

di Massimo Teodori

L'esclusione dalle 8 vice-presidenze delle Camere (4 alla Camera e 4 al Senato) dei membri del gruppo Calenda-Renzi, oltre ad essere un vulnus alla antica tradizione istituzionale, è un ulteriore segno di quella arroganza populistica che dai Cinquestelle è transitata al Partito democratico. Eloquente dell'idea che ha di cosa sono gli organi di garanzia in una democrazia liberale la dichiarazione del vice-segretario dem Peppe Provenzano: "L'unico criterio è il peso parlamentare".

Il metodo di votazione dei vicepresidenti consente alle minoranze di eleggere 2 vice-presidenti alla Camera e 2 al Senato, indipendentemente dalla maggioranza parlamentare. Così, i dirigenti dei partiti di Letta e Conte, senza obiezioni nel partito, hanno deciso di spartirsi 2 vicepresidenze a testa tra Camera e Senato, senza alcuna considerazione la terza corposa minoranza – Azione - che secondo il canone istituzionale non formalizzato avrebbe avuto diritto di avere un suo rappresentante in uno dei due massimi organi che decidono sull'organizzazione dei lavori parlamentari.

La questione non può essere ridotta alle "poltrone" o ai benefit ad esse relativi come sembrano ritenere i seguaci di Grillo e di Letta. La questione riguarda chi deve decidere sulle procedure che vengono adottate dagli uffici di presidenza: procedure che, come tutti sanno, sono parte sostanziale della democrazia liberale, soprattutto nei regimi parlamentari. Formare un ordine del giorno in una maniera piuttosto che nel suo opposto incide fortemente delle decisioni che il Parlamento è chiamato ad assumere, e così pure promuovere l'istituzione di un'inchiesta parlamentare o di un'indagine conoscitiva nelle commissioni parlamentari a cui si conferiscono determinati strumenti.

Si dirà che vi sono anche 8 "segretari d'aula" per ogni Camera. Ma vi posso assicurare, essendo stato per oltre un decennio in quel ruolo, che il loro potere negli uffici di presidenza, a parte l'organizzazione interna delle Camere, è pari a zero. In generale un segretario di presidenza viene attribuito al piccolo gruppo (noi Radicali rappresentavamo il 2% della Camera) a cui era impossibile dare una vice-presidenza, come contentino da calcolare sui grandi numeri.

Il vulnus populista è cominciato nella legislatura del 2018 con i Cinquestelle che hanno fatto incetta di un abnorme numero di rappresentanti negli uffici di presidenza, proprio loro che sono scesi su piazza Montecitorio a fare una sceneggiata con grandi poltrone e forbici di cartone a beneficio del popolo plaudente.

La storia parlamentare insegna qualcosa: fin dalla prima legislatura repubblicana nella Guerra fredda, si è rispettata una larga e completa rappresentanza nelle presidenze e vice-presidenze delle Camere anche dei piccoli gruppi per significare la superiorità della democrazia parlamentare liberale su quella autoritaria in cui la maggioranza prende tutto. Una cosa sono le maggioranze politiche deliberative, un'altra gli equilibri nelle istituzioni di garanzia.

Solo per fare qualche esempio per scendere dall'astratto allo storico, ricordo che furono vice-presidenti nelle prime legislature fin dal 1948 i rappresentanti di piccoli gruppi quali il PLI con Martino, il PRI con Chiostergi, il PSDI con Bennani, il PSI con Targetti e Pertini oltre ai comunisti D'Onofrio, Li Causi, Cinciari Rodano, quindi, più avanti, ebbero vice-presidenti tra gli altri piccoli gruppi con Mariotti, Bucalossi, Romita, Preti, Aniasi e Biondi e, ancora, con Rodotà, Mastella, Dotti, La Russa, Della Valle, finché arrivò la "gloriosa" stagione grillina.