di Esmail Mohades

 

Quando nella città di Abadan, sede della più grande raffineria di petrolio dell’Iran, il 19 agosto 1978 si incendiò il cinema Rex, tutti incolparono la Savak dello scià, la polizia segreta capace di tutto. Invece, oltre 400 innocenti morirono, bruciati vivi dal fuoco dei reazionari seguaci di Khomeini, non ancora al potere, per far ricadere la colpa di una strage sulla dittatura monarchica. Come se le colpe della dittatura dei Pahlavinon fossero sufficienti per chiedere il rovesciamento di quel regime. Gli uomini di Khomeini chiusero tutte le uscite del cinema, gettarono a volontà la benzina e carbonizzarono centinaia di persone che stavano guardando il film “Gavaznha”, I cervi, del regista Masoud Kimiai, che invitava alla ribellione. Khomeini definì la strage del cinema Rex un capolavoro per demonizzare lo scià della Persia. Un terribile preambolo del nuovo in arrivo!

Il pomeriggio di venerdì scorso, 15 ottobre, verso le 18 dal terribile carcere di Evin – costruito negli anni Sessanta su 40 ettari di pendio delle alte montagne che dominano Teheran – sì è alzata una densa colonna di fumo. Subito si è temuto il peggio; si è pensato che il regime, in difficoltà e capacissimo di tutto, avesse inscenato un macabro spettacolo per macellare tanti giovani arrestati nella speranza di sedare la rivolta in atto! Il figlio di Ali Akbar RafsanjaniYaser, sabato notte annunciava sulla piattaforma Clubhouse che le autorità della prigione di Evin avevano concesso in anticipo il solito congedo a suo fratello Mehdi, che avveniva ogni due settimane: dal mercoledì al venerdì. Mehdi, il figlio maggiore di Rafsanjani, condannato a 10 anni di carcere con l’accusa di “appropriazione indebita, falsificazione, corruzione e crimini verso la sicurezza”, è detenuto nella settima sezione del carcere di Evin dal giugno del 2015. Yaser aggiungeva che il fratello avrebbe dovuto ripresentarsi in carcere venerdì 15 ottobre, ma è stato avvisato di non rientrare. Il figlio di Rafsanjani ne ha dedotto che le autorità, probabilmente, sapevano che sarebbe scoppiato un incendio a Evin!

L’agenzia di stampa del sistema giudiziario del regime, Mizan online news agency, alle 17,23 del 15 ottobre aveva dapprima diffuso, poi cancellato, la notizia dell’incendio avvenuto alle 18! Già da qualche giorno avevano trasferito alcuni dei più noti prigionieri dal carcere di Evin e sabato, di buon’ora, le forze speciali dei pasdaran si erano stabilite nella settima sezione e, chiaramente, provocavano i prigionieri e questi a loro volta rispondevano con gli slogan “morte al dittatore, morte a Khamenei!”.

L’agenzia Irna – domenica mattina – dava la notizia dell’incendio nella sartoria del carcere e del ferimento di alcuni detenuti. I testimoni, familiari dei prigionieri che si trovavano nei paraggi, non hanno naturalmente creduto a una parola dell’agenzia del regime e, invece, hanno riferito di aver sentito esplosioni e spari di mortaio. Molti iraniani hanno pensato che il regime volesse liberarsi dell’alto numero dei prigionieri politici arrestati nei giorni scorsi, tra cui si annoverano, oltre ai membri delle Unità di resistenza, molti studenti universitari e scolari adolescenti. Uno degli slogan, “Evin è diventato un’università”, testimonia l’alto numero sia degli studenti, come Ali Junesi e Amir Hossein Moradi, vincitori, rispettivamente, delle medaglie d’oro e d’argento alle Olimpiadi di Astronomia, sia dei loro professori, che sono ammassati in questo carcere.

Sin da subito le famiglie delle persone incarcerate si sono radunate all’esterno, preoccupate per i destini dei loro cari rinchiusi nella struttura, appoggiati da molti manifestanti. Da fuori si sentiva il grido dei detenuti “morte al dittatore, morte a Khamenei!”. I familiari temevano un massacro, come era già accaduto nel 1988, quando in poche settimane il regime khomeinista decimò oltre 30mila prigionieri politici nelle carceri. Con queste feroci, disumane repressioni e uccisioni il regime spera di liberarsi dei leader delle manifestazioni, ormai estese in tutto il Paese, e si illude di incutere paura e congelare la rabbia della popolazione in rivolta. Sull’incendio di Evin la tv del regime dapprima aveva dato la notizia di 40 vittime per poi correggersi su quattro e, successivamente, fermarsi a otto morti. Sul numero dei deceduti circolano cifre spaventose, ma secondo i testimoni sul posto il numero reale dei morti sarebbe di oltre 30 persone, mentre decine di feriti sono stati lasciati senza alcuna cura. Già il 9 ottobre i pasdaran avevano aggredito i prigionieri politici nel carcere di Lakan nella regione di Ghilan: tra gli spari e l’incendio hanno perso la vita molti detenuti. Il 17 ottobre, durante l’ora d’aria, nel carcere di Gohar-dashtile guardie sparavano sui prigionieri radunati nel cortile e questi in risposta lanciavano slogan “morte al dittatore, morte a Khamenei!”.

Dall’Iran arriva una voce all’unisono: ciò che è in atto nel Paese non è una protesta, ma una rivoluzione. Molti adolescenti inviano coraggiosi messaggi-video, dove affermano che non si battono per il velo, ma per Azadì, per la libertà. Il regime iraniano è in enorme difficoltà e anche molti suoi uomini intravedono il crollo di questo infernale sistema, che in tali condizioni è molto pericoloso e capace di compiere inauditi atti criminali. La paurache in decenni il regime ha cercato di infondere tra la popolazione, riuscendoci in parte, ora ha invaso il suo campo e lo corrode; e così trasmuta la sua vigliaccheria in aggressività. Il regime teocratico al potere in Iran è stato sempre debole e instabile, quando il regime è apparso forte lo è stato solo per la debolezza della politica di appeasement adottata dai governi occidentali; una nefasta politica che sembra al tramonto in seguito all’urlo di libertà dall’Iran.