Joe Biden (depositphotos)

di Gabriele Minotti

Le elezioni di midterm non sono andate come avevano previsto i Repubblicani e la maggior parte dei sondaggisti, i quali avevano data per certa la red wave, l'onda rossa (il colore che negli Usa viene tradizionalmente associato ai conservatori). Sebbene il Grand Old Party avesse dato per certa la riconquista di entrambi i rami del Congresso, con il conseguente "azzoppamento" di Joe Biden, i Democratici hanno tenuto anche in molte circoscrizioni dove la loro vittoria era ritenuta impossibile, arrivando persino a riprendersi alcuni colleghi persi durante l'era di Donald Trump. In sostanza, i Repubblicani avanzano ma i Democratici non arretrano, il che ancora una volta è segno della polarizzazione, della spaccatura, della profonda divisione nel tessuto sociale americano.

Anche in Pennsylvania, Stato notoriamente conteso tra le due fazioni (data anche la sua tradizionale rilevanza negli equilibri politici americani), il sorpasso auspicato dai conservatori non c'è stato: a vincere sono stati i dem John Fetterman, vicino all'ex presidente Barack Obama, e Josh Shapiro, eletto governatore. Anche in Arizona, dove pure i dem non hanno mai avuto gioco facile, il seggio al Senato è stato ottenuto dall'ex astronauta Mark Kelly, che ha ottenuto percentuali inaspettate, comunque più alte di quelle che erano state inizialmente attribuite allo sfidante repubblicano, Blake Masters. Tra gli sconfitti democratici, invece, Beto O'Rourke, l'enfant prodige dei dem candidato governatore in Texas, e Tim Ryan. In ogni caso, Biden può tirare un sospiro di sollievo: pur avendo perso la Camera, l'attuale presidente può rasserenarsi: la mappa elettorale, rispetto al 2020 non è mutata in maniera significativa.

Vi sono tuttavia delle "ombre" sulla parziale tenuta dei democratici: molti dei candidati vincitori, soprattutto alla Camera, appartengono alla corrente "radical", all'ultrasinistra di Bernie Sanders: tra questi Summer Lee o Maxwell Frost. Segno del fatto che il termine "socialismo" non è più una bestemmia nella patria del capitalismo e dell'individualismo? O di una rottura, soprattutto da parte dell'elettorato più giovane, con la tradizione a stelle e strisce? Di sicuro non fa presagire nulla di buono, nemmeno per l'Amministrazione di Biden, che potrebbe vedersi ostacolata su temi come la politica estera e la difesa dall'ingrossamento delle file dell'estrema sinistra.

Particolare attenzione, però, meritano le dinamiche che queste elezioni di midterm hanno innescato all'interno del Partito Repubblicano: se, in Florida, Marco Rubio e Ron DeSantis hanno vinto rispettivamente la gara per il Senato e per la carica di governatore, i candidati più vicini a Donald Trump non hanno riscosso il medesimo successo. In particolare, quelli che hanno incentrato la loro campagna elettorale sulla presunta illegittimità della presidenza di Biden e che hanno apertamente strizzato l'occhio ai fatti di Capitol Hill. Come interpretare questo? Come un segno del definitivo tramonto del trumpismo? Se lo stesso tycoon aveva ventilato la possibilità – assai concreta – di un suo ritorno in campo nel 2024, ora le cose potrebbero cambiare. Anzi, si direbbe che queste elezioni, più che un referendum sulla presidenza Biden, siano state un referendum su Trump. La sconfitta dei candidati più vicini all'ex presidente starebbe inducendo i vertici conservatori a una riflessione circa l'opportunità di puntare nuovamente su The Donald. Anzi, l'indebolimento di Trump potrebbe rivelarsi provvidenziale per Ron DeSantis, che accarezzerebbe da tempo il progetto di tentare la corsa alla Casa Bianca e che potrebbe – forte anche di un vasto sostegno all'interno del Gop – sfidare proprio il tycoon alle prossime primarie repubblicane, oltretutto con ottime possibilità di successo.