di Giulia Belardelli
 
Il partito della guerra in Russia ha preso molto male l’umiliazione di Kherson, una battuta d’arresto che Mosca ha presentato come riposizionamento strategico, ma che scontenta i falchi e gli ideologi del nazionalismo russo, che dal 24 febbraio spronano il Cremlino a conquistare l’Ucraina con tutti i mezzi possibili. Lo dice pubblicamente il propagandista Vladimir Solovyov, megafono dell’ala più oltranzista, che torna a chiedere a Vladimir Putin di risolvere i “gravi problemi" sorti nella campagna d’Ucraina con il "pugno di ferro". Lo scrive su Telegram l’ideologo nazionalista Aleksandr Dugin con una rara violenza verbale contro il presidente russo: un post che viene scritto, poi rimosso e infine disconosciuto dallo stesso filosofo, la cui figlia è stata assassinata ad agosto in un attentato di cui i russi accusano i servizi ucraini.“Il potere. È responsabile di questo. Che senso ha l'autocrazia, che è quello che abbiamo? Diamo al Sovrano la pienezza assoluta del potere e lui ci salva tutti, il popolo, lo Stato, la gente, i cittadini, in un momento critico. Se per farlo si circonda di schifezze o sputa sulla giustizia sociale, è spiacevole, ma lo fa solo per salvarci. E se non lo fa? Se non lo fa, il suo destino è quello del Re della pioggia (vedi Frazer)”. Il riferimento è a un saggio dell'antropologo e storico delle religioni scozzese James Frazer, in cui un re viene ucciso perché non è riuscito a portare la pioggia durante la siccità: per punizione, gli viene gli viene squarciato lo stomaco. Crudo e semplice.

“L'autocrazia ha un lato negativo”, scrive il filosofo dell’ultra destra. “La totalità del potere nel successo, ma anche la totalità della responsabilità nel fallimento […]. Kherson non si è quasi arresa, si è arresa del tutto. Nessuna lamentela su Surovikin. Non è un politico, è responsabile dell'aspetto tecnico del fronte. Il colpo non è diretto a lui. Voi sapete per chi è il colpo. E non saranno più le pubbliche relazioni a salvare la situazione. In una situazione critica le tecnologie politiche non funzionano affatto. Oggi la storia parla. E dice parole terribili per noi”. Più tardi arriva il disconoscimento: "Nessuno ha voltato le spalle a Putin. L'Occidente ha iniziato a far credere che io e i patrioti russi ci siamo rivoltati contro Putin dopo la resa di Kherson, chiedendo presumibilmente le sue dimissioni. Questo non proviene da nessuna parte. La Russia e Putin non capitoleranno mai”.

 Malgrado la smentita, c’è un filo che lega le parole di Dugin a quelle dell’ex presidente Dmitri Medvedev: la minaccia di un Armageddon nucleare. “Questo è un passo verso l'Armageddon. Le condizioni dell'Occidente, questa civiltà di Satana, non saranno mai accettabili per Mosca. Ciò significa che le armi nucleari tattiche e le armi nucleari strategiche rimarranno”, scrive il primo. "Mosca continuerà a riprendersi i territori russi”, assicura il secondo, sottolineando che se la Russia “non ha ancora utilizzato tutto il suo arsenale di possibili armi di distruzione" in Ucraina “è solo per la sua gentilezza umana”, ma "ogni cosa ha il suo tempo".

L’immagine che emerge è quella di un Putin sempre più stretto da due fuochi: da un lato il malcontento di falchi come il leader ceceno Ramzan Kadyrov e il fondatore del Gruppo Wagner Yevgeny Prigozhin; dall’altro un’opinione pubblica contraria alla mobilitazione, da rassicurare con il mantra di una Madre Russia che – dopo aver mandato decine di migliaia di giovani a morire allo sbaraglio – si preoccupa della vita dei suoi figli. Sempre più isolato sul piano internazionale, come dimostra la sua annunciata assenza al G20 di Bali, Putin si consola parlando al telefono con il presidente iraniano Ebrahim Raisi, non esattamente un esempio di leadership di successo. "Sono state discusse numerose questioni di attualità nell'agenda bilaterale ponendo l'accento sull'ulteriore rafforzamento della cooperazione nei settori politico, commerciale ed economico, compreso il settore dei trasporti e della logistica. È stato concordato che i contatti tra i dipartimenti competenti di Russia e Iran saranno intensificati", fa sapere il Cremlino, sorvolando sulla merce che ora sta più a cuore a Mosca – quei droni e missili iraniani che Putin vorrebbe arrivassero più copiosamente e velocemente nelle mani dei russi.

Secondo Carolina De Stefano, docente di Storia e Politica russa all'università Luiss Guido Carli e autrice di “Storia del potere in Russia. Dagli zar a Putin” (Scholè), Putin si ritrova in una situazione paradossale. “Figure come quella di Dugin non erano affatto centrali nella rete del potere in Russia. Lo sono diventate grazie allo spazio sempre maggiore di cui hanno goduto dalla terza presidenza Putin in poi. La scelta di puntare sull’ideologia di una Russia imperiale, etnocentrica, ora gli si sta ritorcendo contro: nel dibattito pubblico c'è una violenza, un'aggressività, che il governo stesso ha alimentato nel tempo e che ora fatica a contenere”.

Anche grazie ai social media, personaggi come Medvedev e Kadyrov sono diventati delle potenze di fuoco mediatiche. Prima della guerra, l'attuale lavoro dell'ex presidente Medvedev come vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo raramente faceva notizia, fa notare il Moscow Times. “A marzo, in seguito all'invasione dell'Ucraina, Medvedev ha creato un canale Telegram, dove minaccia regolarmente e chiede un'escalation, e usa un linguaggio volgare per riferirsi all'Ucraina e ai leader occidentali. I suoi post schietti ottengono ciascuno una media di oltre 2,25 milioni di visualizzazioni: un pubblico che molti media possono solo sognare. Viene spesso citato dai media sia russi che stranieri e il suo indice di fiducia, che si aggirava intorno al 20% prima della guerra, è salito al 40%”. Stesso discorso per Kadyrov: prima della guerra, il suo canale Telegram aveva 60.000 follower ed era in gran parte dedito ai suoi affari ufficiali. Da quando ha rivolto la sua attenzione alla guerra, il suo pubblico è cresciuto fino a raggiungere i 3 milioni di follower.

“Forse Dugin - anche per ciò che è successo alla figlia - pensa di potersi permettere affermazioni che altri ancora non osano fare, pur essendo d’accordo”, osserva De Stefano. “Evidentemente sente di non correre un così grave rischio o di non avere così tanto da perdere. Quanto a Putin, indubbiamente si trova stretto tra una retorica sempre più violenta che gli si ritorce contro e la necessità di rassicurare la popolazione dopo la mossa altamente impopolare della mobilitazione. Con la ritirata da Kherson, inoltre, perde di credibilità la strategia di utilizzare le annessioni come affermazione del controllo su un territorio: questa idea si è totalmente sgretolata, con un impatto potenziale anche su quella che è la percezione del significato dell'annessione della Crimea stessa”.

È un castello di carte che viene giù, galvanizzando le autorità ucraine che hanno sempre indicato la riconquista della Crimea come un obiettivo. "Oggi sentiamo tutti insieme l'euforia. Non esiste persona che non abbia visto il video del nostro popolo di Kherson che incontra i difensori ucraini. Ne vedremo molti altri del genere in quelle città e villaggi che sono ancora occupati. Non dimentichiamo nessuno, non lasceremo nessuno indietro". Così in un post su Telegram il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. "Sarà lo stesso a Genichesk e Melitopol e in tutte le nostre città e villaggi del Donbass. Vedremo sicuramente come le forze ucraine incontreranno le bandiere ucraine in Crimea, e ce ne saranno centinaia per le strade il giorno della liberazione".