La storia di Napoli, città ospitale in ogni senso, annota tre giornate indimenticabili. L'arrivo di Giuseppe Garibaldi alle 13,30 del 7 settembre 1860, un venerdì, alla stazione centrale.  L'arrivo del generale Clark con inglesi e americani alle 9,30 dell'1 ottobre 1943, un altro venerdì, in via Marina. L'arrivo di Aurelio De Laurentiis nel pomeriggio del 6 settembre 2004, un lunedì, a Castel Capuano, sede del vecchio Tribunale. Si tratta di tre arrivi discussi e discutibili. Fermandoci all'attualità, l'arrivo di Aurelio De Laurentiis può essere considerato il più destabilizzante dei tre. 

In primo luogo perché, al contrario di Garibaldi e del generale Clark, non era il più atteso. In secondo luogo perché, venuto a salvare il Napoli, non sapeva niente di calcio e molti avrebbero preferito il grande e grosso Luciano Gaucci, ex tranviere a Roma a capo di una impresa di pulizie con 200 miliardi di fatturato però fallita, ma aveva fatto una fortuna col galoppatore irlandese Tony Bin acquistato per 12 milioni e rivenduto per 7 miliardi, e poi era nel calcio da trent'anni con imprese e magagne adeguate. In terzo luogo perché De Laurentiis era impropriamente ed esclusivamente considerato il produttore dei cinepanettoni tant'è che allo stadio di Fuorigrotta apparve immediatamente un enorme striscione: "Il calcio non è il cinepanettone, questa programmazione è solo improvvisazione, non mortificate la nostra passione". 

Infine perché De Laurentiis non si propose sentimentalmente come un appassionato "salvatore della patria", ma nella prima conferenza stampa all'Hotel Excelsior, Pierpaolo Marino alla sua destra, Giampiero Ventura alla sinistra, parlò con la testa, da imprenditore avveduto, e non con il cuore, bene mio core mio, come sarebbe piaciuto a un popolo di sai perché mi batte il corazòn. Piacque però ai neoborbonici perché disse: "Cavour è stato un gran paraculo mandando Garibaldi a fare manfrina con la mafia in Sicilia per poter fare l'Italia unita". Non avevano fatto diversamente gli americani sbarcando in Italia, ma questo De Laurentiis non lo disse perchè aveva casa a Los Angeles. 

Con queste premesse, Aurelio De Laurentiis, giunto al diciannovesimo anno di presidente-padrone del Napoli, ha definitivamente destabilizzato la città di Napoli conducendo con successo l'azienda azzurra che ha prodotto, in questi diciannove anni, milioni di euro di dividendi al Consiglio di amministrazione del Napoli: Aurelio, la moglie Jacqueline, i figli Edoardo, Luigi e Valentina, Andrea Chiavelli uomo di fiducia. Un'azienda sana, vincente e remunerativa è uno scandalo inammissibile in una città dove la metropolitana fa acqua, gli autobus sono al collasso, il Comune ha cinque miliardi di deficit, duemila negozi hanno chiuso tra pandemia e bollette, il Vesuvio non fuma più. Niente va bene a Napoli, tranne il Napoli. 

Questo, nel golfo, ci risulta insopportabile per vari motivi. Escludendo la naturale invidia, il consenso ipocrita e l'ammirazione interessata, il successo di De Laurentiis a Napoli ci priva, in questa eterna valle di lacrime, di ogni pretesto e stimolo di scontento, lamento, protesta, ingiuria, disperazione e vittimismo, qualità essenziali per proporci al mondo nella nostra insopprimibile teatralità, dramma e commedia, così ben rappresentata dal nostro illustre concittadino Eduardo, e ci nega il doloroso piacere delle nostre canzoni di strazio del tipo si avisse fatto a n'ato chello ch''e fatto a me e luna rossa ccà nun ce sta nisciuna. 
La normalità di De Laurentiis ci disturba. Siamo napoletani, non canadesi. De Laurentiis è un canadese. Appare uscito dal frigo a noi che abbiamo il sole in fronte. Siamo stati felici quando, ai tempi di Lauro, scassavamo lo stadio e quando mettevamo le bombe sotto la casa di Ferlaino. 

Siamo dichiaratamente per lo sfogo, non per l'acquiescenza e non ci intenerisce il fatto che De Laurentiis aveva i capelli neri il giorno della conferenza all'Hotel Excelsior e oggi ce li ha completamente bianchi. Se il Napoli lo ha invecchiato, fatti suoi. Aurelio prese il Napoli che non c'era niente, neanche i palloni, neanche i giocatori. Uscì dal Tribunale fallimentare e disse: "Ho comprato solo un pezzo di carta". Gioimmo per le immediate difficoltà. Gli invidiavamo la comunella californiana con Angelina Jolie e Gwyneth Paltrow. In due anni in serie C prese 56 giocatori e due allenatori. Avevamo ragione: questa programmazione è solo improvvisazione. Noi andavamo a giocare a Lanciano e a Gela, lui era a Los Angeles e alle Isole Vergini per gli impegni cinematografici. Chiamò il club Napoli Soccer, un'americanata, mentre giocavamo con Berrettoni e Ignoffo, calciatori poco statunitensi. 

Con la sicumera di un Robert De Niro in un film di Scorsese dichiarò: "Il Napoli avrà tutti i titoli per essere inserito tra i grandi club europei". Chiese una diecina d'anni di tempo. Noi gli apparecchiavamo striscioni tipo "AdL illudi e fallisci, pappone sparisci", "Al trionfo preferisci il portafoglio gonfio", "Siamo stanchi di piazzamenti e contentini, pretendiamo di essere primi". Disse che eravamo degli ignoranti, aggiungendo: "Noi del cinema siamo signori". Una guerra. In meno di dieci anni abbiamo effettivamente giocato col Bayern e il Manchester City, poi Paris Saint Germain e anche Liverpool. È stata solo fortuna. Ha voluto sorprenderci toccando le corde del sentimento, negandogli che ne avesse uno, quando dichiarò: "Sono tornato in Italia, a Napoli, perché per me l'Italia è Napoli, Napoli è la cosa che più mi convince dell'Italia". A noi non convinceva Aurelio De Laurentiis. A pelle, a palle infuocate, di faccia e di profilo. 

Abituati ad ogni tipo di invasore, dai tempi del generalissimo bizantino Flavio Belisario che entrò a Napoli attraverso le gallerie dell'acquedotto, De Laurentiis rimaneva uno yankee romano, un estraneo alla nostra storia millenaria, un invasore entrato in città attraverso la Fallimentare quando eravamo a pezzi e in ginocchio e volevamo goderci la vergogna di un patatrac memorabile. Volle salvarci per un suo disegno di più vasta popolarità e guadagno, il pallone più forte del cinema, un Rocky Balboa di Trastevere nell'opportunità unica della sua vita di diventare un pastore nei presepi di San Gregorio Armeno, certificazione universale di affermazione urbis et orbis. Ci umiliava: "La pizza a Napoli non la sanno fare, preferisco la pizza romana". Non si è mai pronunciato sui mandolini. 

Parlava troppo e questo ci rimescolava il sangue. Un giorno affermò: "Il Napoli di Maradona dominava in Italia, non in Europa". Ahi quel che disse fu cosa dura. Colpiti nel mama mama mama, ho visto Maradona, ho visto Maradona. Rincarò la dose: "Ma che cazzo avete vinto a Napoli, io me ne posso pure andare, perché uno poi si rompe i coglioni e se ne va, e io me ne torno a fare il cinema". Una promessa o una minaccia? Avremmo gradito la prima ipotesi. Ci indispettiva che andasse dritto per la sua strada, insensibile alle nostre documentate ingiurie. Comprava Cavani, Lavezzi, Quagliarella, Higuain e li rivendeva, come chi fabbrica e sfabbrica non perde mai tempo, ma noi perdevamo la pazienza. Il distacco era sempre totale e non gli avremmo mai detto Aurelio facci sognare. Sognandolo era un incubo. 

Un uomo impetuoso tra feriti a morte, venuto a scuotere la nostra pigrizia, la rassegnazione e la fatalità come uniche bussole della vita, basta che ce sta 'o sole e ca nc'è rimasto 'o mare. Aggredì Reja, litigava con Mazzarri, non sopportò che Benitez fosse condizionato dalla moglie e dalle due figlie. Prendendo Sarri disse: "Sta sempre in tuta, urla e bestemmia, vorrei proprio capire come si adeguerà al Napoli". Lo prese e quando se ne andò lo definì "un comunista attaccato ai soldi", insultando la nostra fede proletaria. Quando Sarri arrivò con uno stipendio da serie C non potemmo fare a meno di sentenziare con un pregiato calambour: "Siamo Giuntoli alla sorpresa, risparmiare sulla spesa". 

All'arrivo di Ancelotti stendemmo questo striscione per AdL: "Carletto l'ultimo prescelto per prendere in giro tutti senza un vero progetto". Dovete convenire che facevamo rime senza difficoltà. Una molto coincisa: "Un presidente cialtrone, la nostra vessazione". 
Una molto ricercata: "Non voler vincere, ma lucrare sulla nostra passione, sei tu il 'malus', lurido pappone". Una tale produzione di teli da protesta non aveva alcun riscontro nelle precedenti epoche del Napoli. Una volta, ed era esattamente il 10 ottobre 1982, col Napoli di Giacomini che poi Pesaola salvò dalla retrocessione, fu inventato uno striscione aeronautico, legato alla coda di un velivolo da turismo che sorvolò il San Paolo, e c'era scritto "Ferlaino via", sintetico e poco offensivo. 

Come abbia fatto Aurelio De Laurentiis a resistere diciannove anni alla nostra incessante striscioneide senza farsi santo e martire mollando tutto non è dato sapere. Può spiegarlo la sua affermazione: "Io mi tengo il Napoli finché muoio". Si è comportato con i nostri striscioni come Ulisse con le sirene tra Capri e Sorrento. Ha resistito ed è andato oltre. Ed ora eccolo in testa al campionato e negli ottavi della Champions. Che striscione vuoi fargli ancora? Propenderei per "T''a vuò fà fa 'na foto?".

MIMMO CARRATELLI