PORTOFRANCO

DI FRANCO MANZITTI

 

E’ stato il periodo più buio del Dopoguerra, lungo almeno dieci anni, tra il boom degli anni Sessanta,  poi tra quelli del riflusso, fino all’inizio dei Settanta e i Novanta della sopravveniente Tangentopoli. 

Li abbiamo rimossi con una velocità incredibile. Cancellati, spazzati via dalla memoria collettiva, da Piazza Fontana, bomba nera nella Banca dell’Agricoltura di Milano a via Fracchia di Genova, con la fine sanguinosa della mitica colonna genovese delle Br, scoperta dai carabinieri del generale Dalla Chiesa.

Le nuove generazioni non credono ai loro occhi quando vedono le immagini, spesso in grigio, di quella lunga storia di terrorismo nero e rosso che funestò l’Italia con le stragi sui treni, il rapimento e l’uccisione del politico più importante del Dopoguerra, Aldo Moro e tanti delitti, tra bombe, gambizzazioni, esecuzioni, processi del popolo, rapimenti con le istituzioni nel mirino, sempre. 

Quasi cinquecento morti, migliaia di feriti, le istituzioni tenute in scacco per anni, il rischio di un golpe da una parte e dall’altra quello della rivoluzione proletaria, con operai e studenti al seguito delle bande armate, in un arcipelago di sigle, dalle Br, a Prima Linea, ai Nap a Azione Rivoluzionaria, ai Nar... .

Con i fiancheggiatori di Autonomia, border line tra il mondo extraparlamentare e quello clandestino e assassino.

Tutto questo e siamo incapaci, o per lo meno in difficoltà, perfino di raccontarlo, come dimostra la fiction televisiva che sta andando in onda su Rai 1 in prima serata con ben otto puntate, “Il nostro generale”, dedicata a Carlo Alberto Dalla Chiesa, il supercarabiniere che alla fine sconfisse il terrorismo rosso delle Brigate rosse e fu barbaramente ucciso dalla mafia, quando lo Stato gli affidò l’altro compito “impossibile “ di quegli anni, inviandolo a Palermo per combattere “Cosa Nostra”.

La fiction è molto “volenterosa nelle sue intenzioni di centrare la ricostruzione di anni tanto pesanti sulla figura del generale, affidata a un Sergio Castellitto, certo dotato di grande talento, ma non sufficiente a far decollare una narrazione nella quale, alla fine mancano pathos e consequenzialità politica e sociale. 

Il tentativo di passare attraverso le gesta del grande carabiniere per  rievocare una fase italiana così complessa riesce solo nella misura in cui racconta proprio la storia “militare” dell’ufficiale e della sua famiglia, intorno alla quale ruotano tutti gli avvenimenti.

 Il racconto non riesce ad avere quel ritmo drammatico che i fatti, diligentemente recuperati e messi in sequenza, hanno avuto.

 E’ come se la vicenda fosse un match tra Dalla Chiesa e la sua “squadra” di investigatori e le Brigate Rosse, che emergono attraverso i capi storici. 

Lo Stato, la politica, appaiono sfocati, sullo sfondo, o attraverso gli scontri con i vertici militari o con qualche sottosegretario al Ministero degli Interni. 

Le istituzioni, che erano così clamorosamente sotto scacco, appaiono capricciose, impegnate soprattutto a “contenere” il successo di Dalla Chiesa, quasi a respirare di sollievo davanti agli insuccessi, come l’evasione di Renato Curcio dal carcere di Casale Monferrato e a non esaltare i successi, come le prime catture.  Qualche critico ha parlato in questo senso di “complottismo” come atteggiamento che alcune ricostruzioni degli “anni di piombo” hanno avanzato nel percorso di fiction come questa e anche come quella  appena trasmessa del film di Bellocchio “Esterno notte” sul caso Moro.

Certamente “ Il nostro generale” non cade in questo atteggiamento di denuncia del complottismo, seppure in diversi passaggi, soprattutto per bocca di Dalla Chiesa, le critiche alla politica sono più o meno evidenti. 

Il film di Bellocchio, invece, sparava a zero sul mondo politico di quegli anni difficili, dimenticando che in fondo se non ci fosse stata quella politica a piede fermo la battaglia al terrorismo chissà quando sarebbe finita. 

Il ministro degli Interni ombra di quel tempo, Ugo Pecchioli del Pci non passò per caso e segretamente al generale i nomi dei fuoriusciti del suo partito e addebitare la morte di Moro a una decisione di quella politica anti compromesso storico sarebbe un errore grave.

Tutto questo dimostra, però, che comunque ricostruire il terrorismo, sia con le fiction sia con i film, ma anche con altre opere dell’ingegno che per ora mancano, è un’operazione ancora molto complicata. Alla quale trenta-quaranta anni dopo sarebbe il caso di mettere mano.