di Anonimo Napoletano

Dopo dodici anni di buio assoluto, in cui le carte relative a uno dei grandi "gialli" italiani sono rimaste ad ammuffire in un deposito, un'inchiesta giornalistica tenace e coraggiosa ha fatto riaprire le indagini sul cosiddetto "Unabomber", il misterioso attentatore che dal 1994 al 2006 ha seminato il terrore nelle regioni del Nord Est con una lunga serie di piccoli ordigni esplosivi abilmente camuffati da oggetti comuni, mai letali ma spesso devastanti per le persone colpite, tra cui diversi bambini. Dopo aver riaperto il fascicolo di indagine a novembre, è dei giorni scorsi la notizia che la Procura di Trieste ha disposto una perizia su dieci oggetti, alla ricerca di tracce di Dna mai trovate prima. E, soprattutto, che ha iscritto nel registro degli indagati, oltre ai nove nomi già a vario titolo entrati nelle inchieste degli scorsi anni, anche, a sorpresa, un decimo nominativo, del tutto nuovo, la cui identità è al momento top secret. Ma come si è arrivati a questo risultato e quali elementi nuovi possono oggi far sperare in un risultato positivo della caccia al bombarolo imprendibile da circa trent'anni?

Il misterioso Unabomber, nomignolo affibbiatogli dalla stampa per assonanza con un famoso bombarolo statunitense, ha iniziato a disseminare piccoli ordigni di basso potenziale nel 1994 ed ha agito sempre in una zona ristretta a cavallo tra il Friuli Venezia Giulia e il Veneto, in particolare attorno a Pordenone. Ha dimostrato di possedere buone conoscenze di chimica ed un'ottima manualità, confezionando le sue bombe con elementi di facile reperimento (composti azotati ricavati da diserbanti e fertilizzanti, polvere da sparo reperibile da fuochi d'artificio o cartucce di fucile da caccia eccetera) ma con grande perizia. La sua caratteristica era di "camuffare" l'ordigno in oggetti come evidenziatori, uova, candele, tubetti della maionese o barattoli della Nutella, in modo da attrarre l'attenzione di ignari passanti. Sembra essere stato in particolare attratto dai bambini. Le cariche esplosive non erano fatte per uccidere ma per menomare, infatti ha inflitto gravissime menomazioni nei malcapitati che si sono imbattuti nei suoi oggetti esplosivi. Unabomber non ha mai rivendicato gli attentati e non sembra ci fosse una motivazione univoca nei suoi gesti, anche se si è notato che spesso accadevano in occasione di festività religiose e una volta all'interno di una chiesa. Inoltre, la periodicità degli attentati non era fissa, e anzi c'è stato un lungo periodo in cui non si sono verificati, e poi dal 2006 gli episodi si sono del tutto interrotti. Tutte circostanze queste che hanno reso ancora più difficoltose e confuse le indagini. Tanto che ad un certo punto si è anche ipotizzato che dietro gli attentati ci potessero essere più persone ,non necessariamente collegate tra loto, che probabilmente potrebbero aver agito anche per pura emulazione del primo Unabomber, e questa tesi è stata rafforzata quando il misterioso attentatore è passato, nel confezionamento degli ordigni, da elementi più semplici alla nitroglicerina, che non solo è di difficile reperibilità ma è anche complicata da maneggiare. 

L'ipotesi principale degli inquirenti è che dietro gli attentati ci sia qualcuno abituato a maneggiare armi, un appartenente alle forze dell'ordine o un militare, italiano o statunitense (per la vicinanza ai luoghi degli attentati della base Usa di Aviano). Nel tempo ci sono state numerose persone sospettate, indagate e poi prosciolte. L'ultima archiviazione risale al 2010. Da allora su Unabomber è calato il silenzio.

Marco Maisano

Finché il giornalista Marco Maisano, che stava preparando un podcast sul caso Unabomber intitolato "Fantasma", ha chiesto e ottenuto l'accesso a gli atti investigativi  custoditi in un deposito della Procura nel porto di Trieste. L'istanza è stata presentata unitamente a due delle vittime del bombarolo, Francesca Girardi e Greta Momesso, che quando erano bambine, in due diversi attentati, rimasero gravemente menomate.  Maisano ha cominciato a rileggere tutto il materiale raccolto dagli inquirenti negli anni, file di faldoni impolverati. «Sono partito in ordine cronologico dal 1994. Sapevo di un capello bianco su un uovo, un ordigno inesploso che era stato messo in un supermercato di Portogruaro nel 2000. Cercavo quel capello pensando che sicuramente all'epoca non avevano incrociato il Dna con la banca dati che allora non c'era (è stata istituita nel 2016, ndr)».  Ma, sorprendentemente, oltre al capello in questione, il giornalista si è imbattuto anche in altri due reperti di una certa importanza. Si tratta di altri due capelli e alcuni peli repertati recuperando un ordigno inesploso trovato in un vigneto a San Stino di Livenza. E poi rimasti nei fascicoli. Anche perché all'epoca non c'erano né le tecnologie né le conoscenze attuali e su quei reperti non furono a suo tempo svolte indagini genetiche. È su questa base che le due vittime e il giornalista hanno presentato una istanza alla Procura di Trieste perché il caso venisse riaperto. Ed è proprio quello che hanno fatto il procuratore capo Antonio De Nicolo e  il pm Federico Frezza, che già si era occupato delle indagini su Unabomber anni fa.

«Verificheremo se da tutto il materiale organico allora repertato è stato estratto o meno il dna - ha anticipato il procuratore De Nicolo -. È possibile che in alcuni casi, con i metodi utilizzati allora, non fosse ritenuto estraibile, mentre con quelle attuali magari sì. Quindi dobbiamo constatare se c'è del materiale utilmente sottoponibile a indagini genetiche». 

Ed è in questa direzione che la Procura si è ossa nei giorni scorsi, disponendo, come detto prima, una perizia sui reperti e iscrivendo dieci persone nel registro degli indagati affinché i loro diritti siano garantiti anche nel corso della perizia. Si tratta dei nove già finiti nelle indagini nel corso degli anni passati e di una decima persona, fatto nuovo, di cui non è dato al momento sapere il nome. Che si sia finalmente sulla pista giusta per fare luce sul misterioso Unabomber? Se così sarà, lo dovremo ancora una volta al lavoro meritorio del giornalismo investigativo. Che lo Stato italiano dovrebbe sostenere con maggiore convinzione, invece che limitarlo con una disciplina legislativa assolutamente penalizzante (si pensi alla possibilità di finire in carcere per un reato di opinione come la diffamazione a mezzo stampa che il legislatore si ostina a non voler modificare nonostante una pronuncia della Corte Costituzionale) e con il gravissio attacco al regime dei contributi pubblici che i governi della scorsa legislatura hanno perpetrato.