di Anonimo Napoletano

Nuove minacce di stampo mafioso a Massimo Giletti che è tornato nella sua trasmissione televisiva "Non è l'arena" a parlare di mafia. Dopo essersi occupato in più puntate della cattura di Matteo Messina Denaro, sollevando ombre inquietanti sulle connivenze del padrino, anche grazie alle rivelazioni di Salvatore Baiardo, personaggio equivoco e border line, legato ai fratelli Gravina, boss detenuti all'ergastolo per le stragi mafiose degli anni '90, ecco che nell'ultima puntata Massimo Giletti si è concentrato sull'attentato al giudice Paolo Borsellino e sul giallo, mai chiarito, della misteriosa scomparsa dell'agenda rossa che il magistrato aveva con sé al momento dell'omicidio e nella quale annotava i particolari più delicati e segreti delle sue indagini di mafia.

La storia dell'agenda scomparsa è strettamente collegata alla cattura di Matteo Messina Denaro. Secondo vari pentiti, infatti, l'agendina, in cui sarebbero custoditi diversi segreti che potrebbero coinvolgere il livello politico delle infiltrazioni mafiose, era custodita da Totò Riina. Il giorno del suo arresto, il covo del superboss fu ripulito dai suoi uomini e l'agendina sarebbe finita nelle mani del nuovo padrino, Matteo Messina Denaro. Lo stesso Salvatore Baiardo, poche settimane fa, sempre nella trasmissione "Non è l'arena", aveva detto di aver visto le fotocopie dell'agenda in possesso dei fratelli Graviano. Dopo l'arresto di Messina Denaro, nei covi dove si nascondeva non è stata trovata alcuna traccia dello scottante documento. Ma com'è finita l'agenda di Borsellino nelle mani dei mafiosi?

Paolo Borsellino tradito da un amico - Nell'ultima puntata di "Non è l'arena", Giletti ricostruisce alcuni aspetti inquietanti della strage di via D'Amelio, in cui persero la vita Borsellino e la sua scorta. Il magistrato Massimo Russo, uno dei "ragazzi" di Paolo Borsellino, ha ricordato che subito dopo la strage di Capaci (in cui fu ucciso Giovanni Falcone con la moglie e la sua scorta) «andammo a trovare Borsellino a Palermo nel suo ufficio di procuratore aggiunto. Paolo era seduto dietro la scrivania e non appena varcammo la soglia si alzò, ci venne incontro, ci abbracciò e poi si accasciò letteralmente su un divano posto sulla destra rispetto alla porta di entrata. Si accasciò, come se si fosse lasciato andare e con le lacrime agli occhi ci disse: "Un amico mi ha tradito". Fu una sberla enorme. Fu un colpo. Non riuscimmo a gestire questa confidenza. Borsellino aggiunse anche: "Qua in procura è un nido di vipere". Non abbiamo avuto la prontezza di chiedergli cosa fosse accaduto».

Quindi Borsellino aveva saputo che all'interno della stessa Procura di Palermo si annidavano spie della mafia. Forse anche nei Servizi segreti, quelli che avrebbero gestito la trattativa Stato-mafia per conto di oscuri vertici politici. Borsellino avrebbe annotato i suoi segreti e le sue riflessioni sull'agenda rossa che aveva sempre con sé. Il pentito Gaspare Mutolo, ex autista di Totò Riina, la ricorda bene. Nella trasmissione di Giletti Mutolo ha detto: «Avevo visto Borsellino due giorni prima che morisse e avrei dovuto rivederlo il giorno dopo. Era il clima che c'era, quando scriveva quello che doveva scrivere, i contatti che c'erano e quello che volevano fare le istituzioni, li scriveva sull'agenda rossa. Non voleva verbalizzare perché non aveva fiducia. Si rende conto degli impicci che c'erano? La trattativa è ancora in corso».

Il carabiniere che prese la borsa di Borsellino - E arriviamo al giorno della strage di via D'Amelio. Dalle immagini dei telegiornali della scena dell'esplosione, si vede il carabiniere Giovanni Arcangioli (oggi generale di brigata) nell'atto di allontanarsi dal luogo della strage, proprio in quel disgraziato pomeriggio del 19 luglio del 1992, dirigendosi verso via dell'Autonomia Siciliana con in mano la borsa del magistrato assassinato pochi minuti prima. Nella borsa doveva esserci la famosa agenda, che però non  mai stata trovata. Arcangioli venne indagato per il furto dell'agenda rossa (prosciolto definitivamente il 17 febbraio 2009) e per falsa testimonianza ai pm (decreto di archiviazione emesso il 26 aprile 2012). Le sue testimonianze nei vari processi sono sempre state lacunose e piene di "non ricordo", e le sue ricostruzioni di come andarono i fatti sono cambiate nel corso degli anni. In ogni caso lui afferma di aver prelevato la borsa di Borsellino, di aver visto che all'interno c'erano pochi fogli e un crest dei carabinieri, e di averla consegnata ai magistrati inquirenti.

Il poliziotto e gli uomini dei Servizi in via D'Amelio - Differente invece è la versione dell'ex sovrintendente della Polizia di stato in servizio alla squadra mobile di Palermo Francesco Paolo Maggi, uno dei primi ad essere arrivato nel luogo della strage il 19 luglio 1992 pochi minuti dopo l'esplosione. Intervistato da Giletti, il poliziotto ribadisce quanto testimoniato nel corso dei processi: «Ero di turno quel giorno – ha aggiunto Maggi -. Arrivai dopo circa 5 minuti che era successo il fatto. E notai la borsa nell'auto del magistrato che era in fiamme. Era l'unica cosa che ancora si poteva recuperare... era mezza bruciacchiata ma si poteva recuperare ancora. Stava tra i sedili posteriore e anteriore, lato passeggero. Il vigile del fuoco ha spento l'auto, è entrato dentro l'abitacolo e mi ha consegnato la borsa. Parlai con il funzionario di turno che era con me, il dottor Fassari e mi disse di portarla alla Squadra Mobile e consegnarla all'autista del dottor La Barbera (allora capo della Polizia). Entrammo nella stanza del funzionario del dottor La Barbera e la borsa la ripose nel divano. La Barbera in quel momento non c'era. La consegnai all'autista: l'agente Sergio Di Franco». Tuttavia l'agente Di Franco ha sempre detto di non ricordare affatto questa circostanza. Altro elemento che Maggi afferma con sicurezza è che notò sul luogo della strage la presenza di molti agenti in borghese, certamente dei Servizi: «Infatti, mi stupì... ha distanza di dieci minuti, un quarto d'ora questa gente stava tutta là».

Il misterioso "suicidio" dell'investigatore che aveva scoperto tutto - La trasmissione di Giletti si è poi concentrata sulla figura del maresciallo Antonino Lombardo, comandante della Stazione dei Carabinieri di Terrasini, morto il 4 marzo 1995. La verità ufficiale parla di una morte per suicidio: Lombardo si sarebbe sparato alla tempia con la sua pistola d'ordinanza mentre si trovava in auto alla Caserma Bonsignore di Palermo. I figli contestano questa ricostruzione e sono certi che si tratti di un omicidio. Lombardo era un investigatore espertissimo di fatti di mafia, molto stimato da Paolo Borsellino. Poco prima di morire, hanno ricordato i figli ai microfoni di Giletti, «nostro padre incontrò la moglie di Borsellino, Agnese, e le disse  "finalmente ce l'abbiamo fatta, a breve le porterò la verità sulla morte di suo marito in un vassoio d'argento". Era convinto di avere la verità in tasca». Invece morì con colpo di pistola alla tempia, al volante della sua auto. Il magistrato inquirente non dispose l'autopsia e il caso fu chiuso come suicidio, nonostante, secondo i figli e i loro periti, la posizione del corpo e dell'arma, oltre che la traettoria del proiettile, erano incompatibili con un gesto volontario. Il pomeriggio stesso della sua morte i carabinieri perquisirono la casa di Lombardo alla ricerca di misteriose carte. La procura non ha mai voluto aprire un'indagine sul punto.

Le minacce a Giletti: «Devi smetterla» - Tante ombre, troppi misteri, il dubbio è che qualcuno molto in alto non voglia fare luce su chi tradì Borsellino e chi decise o collaborò alla sua morte. Solo la mafia? O anche un livello superiore che non voleva che le connivenze con la mafia venissero alla luce? Sullo sfondo la trattativa Stato-mafia. Ed è a questo punto che Massimo Giletti ha rivelato in tv: «Vedete, qualcuno questa settimana mi ha detto: "Devi smetterla di occuparti di queste cose". Mi ha mandato un messaggio». La risposta di Giletti in diretta: «Io dico a questa persona che non mi interessa, che noi andiamo avanti. Sapete perché vado avanti? Perché Paolo Borsellino, come tutti noi, poteva mettere in preventivo di essere tradito da un uomo in vita. Ma lui è stato tradito da uomini dello Stato da morto. E la verità va ricercata».

Del resto già qualche settimana prima Salvatore Baiardo aveva "avvertito" Giletti: «Giletti, lei fa del buon giornalismo ma sta rischiando parecchio, a 360 gradi. Non solo a livello di mafia».

E non è la prima volta che Giletti riceve minacce. Nel 2020 fu proprio il boss Filippo Graviano che, intercettato in carcere, ha parole durissime per il giornalista: «Quell'uomo... di Giletti e quel... di Di Matteo stanno scassando la minchia». Per questo da allora a Giletti è stata affidata una scorta.