Giorgia Meloni (foto da Youtube)

Le riforme istituzionali che vorrebbe attuare Giorgia Meloni rappresentano un pericolo di sovvertimento dell’ordine democratico, per vie legali.

La conseguenza? Secondo Valentino De Nardo, già Presidente di Sezione della Corte di Cassazione sarebbe niente meno che la trasformazione di regimi democratici in regimi autocratici.

L’allarme è nelle pagine on line del blog Un Sogno Italiano di Salvatore Sfrecola.

Il potere esecutivo, scrive De Nardo, dopo aver assoggettato di fatto, attraverso granitiche maggioranze parlamentari, il potere legislativo, intende completare il suo piano autoritario. Facendo altrettanto con il potere giurisdizionale, separando le carriere dei magistrati inquirenti da quelle giudicanti, secondo il noto principio “divide et impera”.

La separazione delle funzioni fra le due categorie di magistrati è già stabilita dalla Costituzione, per assicurare la parità delle parti processuali (accusa e difesa) nell’ambito del processo.

Ed è stata ulteriormente disciplinata restrittivamente dalle nuove norme dell’ordinamento giudiziario, in base alle quali “il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, non è consentito all’interno dello stesso distretto, né all’interno di altri distretti della stessa regione, né con riferimento al capoluogo del distretto di corte di appello determinato ai sensi dell’articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni.

“Il passaggio di cui al presente comma può essere richiesto dall’interessato, per non più di quattro volte nell’arco dell’intera carriera, dopo aver svolto almeno cinque anni di servizio continuativo nella funzione esercitata ed è disposto a seguito di procedura concorsuale, previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale, e subordinatamente ad un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal Consiglio superiore della magistratura, previo parere del consiglio giudiziario” [Art. 13, comma 3 del Decreto Legislativo 5 aprile 2006, n. 160 (Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera a), della legge 25 luglio 2005, n. 150)].

Al contrario, la separazione delle carriere delle due categorie di magistrati finirebbe per minare il fondamentale principio dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura da ogni altro potere dello Stato (art. 104 Cost), separando il potere giurisdizionale in due ordini distinti, rispettivamente, quello dei giudici e quello dei pubblici ministeri, rendendo assoggettabile al potere esecutivo l’azione del pubblico ministero.

Con la limitazione del principio generale dell’obbligatorietà dell’azione penale ai casi e modi previsti da leggi ordinarie (secondo il nuovo art. 112 Cost.) attraverso le politiche relative alla giustizia del potere esecutivo – cui compete, tra l’altro, l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia – dirette a stabilire una scala di priorità dei reati da perseguire, in base alle scelte politiche del governo del momento.

Invero, la funzione giurisdizionale, per rimanere autonoma ed indipendente, deve mantenere il suo ruolo unitario, essendo riservata al potere inquirente la sola funzione dell’inizio e della prosecuzione dell’azione penale nel processo e non quella dell’accusa, dovendo lo stesso tendere alla ricerca del fine unico della giustizia, ossia dell’applicazione della legge al caso concreto, sottoposto alla sua attenzione, come il magistrato giudicante, all’esito del processo.

Diversamente, il potere giurisdizionale non manterrebbe il suo fine unitario e indipendente di semplice applicazione della legge, in modo autonomo ed indipendente.

Sono, pertanto, da evitare riforme istituzionali, che mirino a monopolizzare di fatto nel potere esecutivo i tre poteri dello Stato, in contrasto con il principio della separazione dei poteri dello Stato di diritto e democratic.

Come anche la prospettata riforma costituzionale del “premierato”, con l’elezione diretta del Capo del Governo da parte del popolo, la previsione, in caso di sfiducia del Parlamento, dell’affidamento del nuovo incarico a persona scelta fra gli eletti, appartenenti alla stessa maggioranza, che mantenga il medesimo indirizzo politico.

Essa parimenti scardina il medesimo principio, indebolendo le funzioni degli Organi di Garanzia (Presidente della Repubblica, Corte Costituzione e Autorità indipendenti), poste a tutela e garanzia dell’ordinamento democratico, riducendo, soprattutto, il ruolo del Presidente della Repubblica a quello di semplice notaio.

Non avendo il potere di sciogliere il Parlamento e di nominare il Presidente del Consiglio, dovendo necessariamente accettare quello scelto dal partito, che ha ottenuto la maggioranza del voto degli elettori.

Parimenti, sono da scongiurare ulteriori riforme di autonomie differenziate delle Regioni, che minerebbero l’unità dello Stato democratico, già compromesse dalla riforma regionale della legge costituzionale 18.10.2001, n. 3, di modifica del Titolo V della parte seconda della Costituzione.

Esse tendono a differenziare i diritti innati ed acquisiti dei cittadini nelle varie Regioni, in materie fondamentali, quali l’istruzione, la sanità ed il lavoro, privilegiando le Regioni del nord, rispetto a quelle del sud, per le quali si prevede l’istituzione di una nuova Cassa per il Mezzogiorno.

Non bisogna dimenticare, come si può facilmente notare dall’esame degli ordinamenti di diversi Stati, anche europei, che il passaggio dalle democrazie agli Stati autoritari, c.d. autocrazie, il passo è breve.