di MARCO BENEDETTO

Devo a Piero Fassino queste righe. Cadranno nel vuoto come tutto quello che scrivo ma il mio cuore è più contento.
Proprio non riesco a vedercelo Fassino a rubacchiare come un ladro di polli, nel caso una boccetta di profumo. Si scrive di un video, ma il video finora nessuno sembra averlo visto.
Credo alla sua versione. La confusione del momento, le mani occupate da trolley e da quel maledetto telefonino che vibra sempre, lo stress di un politico un po’ in declino ma sempre all’erta.
Metteteci l’età, oltre i 70. Come solidarizzo. E aggiungo: chissà per chi votano quelle guardie tanto accanite contro un ex comunista di prima grandezza.
Conosco Fassino da quasi mezzo secolo. Siamo stati avversari, quando portò Berlinguer nella trappola di Mirafiori e piazza San Carlo per poi negare tutto e accusare me è la mia Spectre della Fiat di avere manipolato un fatto udito da migliaia di torinesi.
Lo stimo molto. Fu un buon ministro del commercio estero, alla Giustizia rimase preda di forze soverchianti.
Soprattutto è stato l’unico segretario del post Pci dopo Berlinguer a vincere una elezione, quella nelle regionali in Friuli Venezia Giulia e non fu  certo un’impresa facile. Fassino vinse perché evitò di radicalizzare la lotta, portò un candidato, Riccardo Illy, che non si può certo definire un Vendola, soprattutto, come mi raccontò lui stesso dopo il risultato, diede la parola d’ordine di non parlare di Berlusconi, trasformando la campagna elettorale da uno scontro su una persona, che divideva a metà l’odio e l’amore degli italiani, a un confronto sui temi e sulla potenziale migliore capacità di amministrare la regione.
Forse per questo lo hanno mandato via.
A Torino è stato un buon sindaco, migliore di predecessori compagni e grillini.
Questo compatibilmente con l’essere duomo di partito.
Negli ultimi tempi più di una volta ha assunto posizioni moderate in controtendenza col sentire diffuso della sinistra.