di MICHELE AINIS
Su questi referendum c’è un problema, e di non poco conto, per i pifferai dell’astensione. Un problema giuridico — anzi: un reato. Previsto dal testo unico delle leggi elettorali per la Camera, in vigore dal 1948. Dice l’articolo 98: «il pubblico ufficiale», e in ogni caso «chiunque investito di un pubblico potere o funzione civile o militare, abusando delle proprie attribuzioni e nell’esercizio di esse», che si adopera a «costringere» gli elettori in favore di questa o quella lista «o a indurli all’astensione», è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. Dopo di che, nel 1970, viene approvata la legge che disciplina i referendum. E il suo articolo 51 estende la pena alla propaganda astensionistica nelle consultazioni referendarie. Testualmente: la sanzione dell’articolo 98 si applica anche ai «voti o astensioni di voto relativamente ai referendum». Queste norme sono ambedue vigenti, il legislatore italiano non le ha mai abrogate. Forse perché non le conosce, tuttavia è giustificato. Non ci riuscirebbe nemmeno Pico della Mirandola, con 50mila leggi in circolo nel nostro generoso ordinamento. Di certo non le conoscono neanche i diretti interessati, di certo ciascuno è in buona fede, ci mancherebbe, d’altronde sono tutti uomini di fede. Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, che da un palco di Fratelli d’Italia ha promesso di fare propaganda affinché la gente se ne rimanga a casa. Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani. Quello dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida. Quello dei Trasporti, Matteo Salvini. Presidenti di Regione come Fontana e Fedriga. L’elenco è lungo, e ogni giorno s’aggiungono nuovi convitati. Tutti innocenti, ovvio. Tutti inconsapevoli delle tante trappole disseminate nel diritto penale. Però ignorantia iuris non excusat, recita un antico brocardo. Nessuno può discolparsi da un furto perché credeva fosse lecito rubare patatine nei supermercati. Tanto più se il colpevole indossa la casacca del legislatore, signore dei delitti e delle pene.
Poi, certo, si può sempre questionare. Come diceva Giolitti, la legge si applica ai nemici e si interpreta per gli amici. Sicché potrebbe obiettarsi che induce all’astensione il sindaco che non fa installare i seggi, o che comunque ostacola in concreto l’esercizio del voto; non invece chi si limita a una mera attività di propaganda. Tuttavia la legge usa due verbi distinti: «costringere» e «indurre». Quel sindaco costringerebbe gli elettori a non votare; ma se viceversa li inonda di sermoni sulle virtù dell’astensione, allora li induce (e probabilmente li convince) a disertare il referendum. Oppure, seconda obiezione: il ministro o il presidente che parla ai giornalisti, ai convegnisti, ai tavolarotondisti di cui trabocca la penisola italiana non sta esercitando le proprie attribuzioni, dunque siamo fuori dai confini di questo reato. Sicuro? Se Mattarella prende parola in pubblico, è il capo dello Stato che fa udire la sua voce, non un privato cittadino; e infatti quella voce risuona più alta, più autorevole, più persuasiva di tutte le altre voci.
Ecco perché è altrettanto fallace la giustificazione che tira in ballo un principio costituzionale inderogabile: la libertà di manifestazione del pensiero. Non vale forse pure per chi occupa uno scranno? Sì e no. Quando parla il presidente della Repubblica non esercita una libertà, bensì un potere. Potere di esternazione, è questo il suo nome. E ogni potere incontra limiti stringenti, che chiamano in causa la responsabilità di chi ne venga investito. Altro è tessere le lodi di un partito chiacchierando con gli amici, altro è farlo dall’alto d’una cattedra, dinanzi agli studenti. Nel secondo caso non si deve, non si può.
Intendiamoci: nessuno auspica un paio di manette ai polsi per La Russa e i suoi colleghi. Sarebbe una richiesta becera, e poi le carceri sono già fin troppo affollate. Probabilmente quelle norme punitive sono figlie d’un tempo ormai trascorso, quando il dovere del voto era preso sul serio, quando la Costituzione stessa era una cosa seria. Non foss’altro perché la nostra Carta ne garantisce altresì la segretezza, mentre di fronte a una campagna astensionistica chi si reca alle urne viene schedato come complice del sì. Quindi adesso le due norme sono divenute anacronistiche, mettiamola così. Ma allora abrogatele, come accadde nel 1993 rispetto alle sanzioni dettate per i cittadini non votanti. I legislatori siete voi, non noi. Tuttavia una norma o c’è o non c’è. E se c’è, va rispettata.