Sono passati più di cinquanta anni dal periodo in cui gli studenti di questo Paese si resero conto che la fase storica della fascia d’età, che trova come caratterizzazione temporale quella compresa tra la scuola media superiore e la Università, non era stabile e quindi passava senza poter essere interlocutrice del mondo politico, del Parlamento e delle istituzioni.

Questa presa d’atto della assenza di un riferimento stabile in grado di poter essere quanto meno ascoltati, di poter quanto meno produrre proposte e ricevere risposte da chi in quel determinato momento storico gestiva la cosa pubblica, portò la enorme fascia di giovani (da 16 a 25-30 anni) ad occupare gli Atenei e a trasformarli in laboratorio, in sedi ottimali per rivendicare un passato carico di errori commessi nella nostra scuola e, in molti casi, a disegnare scenari di un futuro che difficilmente la classe politica dell’epoca avrebbe mai capito e realizzato.

Noi oggi siamo critici e riteniamo che quel periodo rese il Paese ricco di mediocri laureati, di discutibili professionalità e dimentichiamo e sottovalutiamo l’impegno che invece quella fascia di giovani aveva profuso per cambiare un assetto socio-economico che, sempre secondo quel Movimento giovanile aveva prodotto scenari sbagliati e, cosa ancor più grave, stava inseguendo assetti completamente antitetici ad un sviluppo misurabile del Paese, ad una crescita effettiva specialmente di alcuni ambiti territoriali del Sud. In particolare, quel Movimento non parlava del Mezzogiorno ma di aree interne come quelle della Irpinia, del Molise, della Calabria, della Sicilia e della Sardegna e delle megalopoli del sottosviluppo come Palermo, Catania, Napoli, Bari e Cagliari. I giovani del ’68, senza dubbio carichi di una ingenuità e di una spontaneità tipica della fascia d’età ma al tempo stesso coscienti che occorrevano sostanziali cambiamenti nei rapporti fra distinte generazioni, furono capaci di dare vita a due distinti fenomeni: difendevano interessi del loro “stato”, della loro fascia d’età e scoprivano per la prima volta che le istituzioni e soprattutto la fascia d’età di chi gestiva la cosa pubblica onorava solo la inerzia nella scelta e nella gestione dei possibili scenari; avevano capito che il malumore, lo sconforto, la crisi che il Paese avrebbe vissuto negli anni futuri era a tutti gli effetti un fenomeno che superava i confini nazionali e, addirittura, andava oltre anche quelli europei e quindi era sicuramente forse la prima “rivoluzione planetaria”, una rivoluzione che, però, quei giovani erano convinti che non sarebbe mai sfociata in forme eversive.

Poi la storia, gli eventi che hanno caratterizzato questi oltre cinquanta anni ci hanno testimoniato una triste scomparsa di questo cuore pulsante che rimane sempre quello della fascia giovane, di una fascia che per un fatto fisiologico non si consolida mai. Purtroppo questa coscienza della propria inutilità ed incapacità ad essere interlocutori ha praticamente spento, per quasi quaranta anni, la capacità politica e la lungimiranza strategica di una fascia d’età che è crollata nella peggiore delle atarassie e, soprattutto, ha preferito ricorrere alla rassegnazione ideologica in quanto ha inseguito schieramenti che, o erano storici ma privi di adeguata intelligenza programmatica come il Partito Democratico o Forza Italia, o erano in una fase di evoluzione come la Lega e Fratelli d’Italia, o erano nati da poco per coinvolgere in modo forte una vasta base offrendo la costruzione di un Governo completamente diverso dai canoni tradizionali come il Movimento Cinque Stelle.

Questa stasi politica di un elettorato che incide per oltre il 15 per cento nella aggregazione delle varie forme di consenso forse potrebbe concludersi proprio in questo particolare periodo; i motivi di una tale resurrezione sono tanti: 1) Il lungo periodo della pandemia e quindi l’assenza di un confronto fisico sistematico ha fatto capire e misurare quanto siano negativi i comportamenti che non rendono possibile le aggregazioni, non danno spazio alle rivendicazioni di esigenze vitali come quella di “stare insieme”; 2) Il mantenimento inalterato per oltre venti anni della “non crescita” del Paese con delle punte davvero inimmaginabili di crisi socio-economica di alcune aree come quelle del Mezzogiorno del Paese; 3) L’assenza di proposte strategiche avanzate proprio da schiera- menti come il Partito Democratico e Movimento 5 Stelle e, ancora peggio, il fallimento sistematico di tutti gli impegni e di tutti i possibili programmi promessi dal M5S; 4) Il mancato coinvolgimento in una fase importante del Paese e dell’intero assetto comunitario proprio della stessa fascia di età che nel ’68 aveva capito e cercato di uscire dall’anonimato per rivendicare un ruolo nella scelta di ciò che ancora chiamiamo “il futuro”.

Non sono un veggente, né ritengo che in un momento come quello attuale sia possibile prevedere e disegnare possibili scenari, ma sono convinto che l’occasione di un presidente del Consiglio come Mario Draghi, un’occasione rara e fino a pochi mesi fa ritenuta impossibile, imponga con la massima urgenza un confronto con questo mondo che da anni o partecipa attraverso i social a riunioni per denunciare la propria esistenza come nel caso del Movimento delle “Sardine” già scomparso o impazzisce con atti eversivi all’interno di manifestazioni pubbliche autorizzate.

Senza dubbio il brodo più adatto per ridare voce a questa vasta platea è quello delle Università e questa volta non sarà necessario occuparle ma penso sia opportuno che i vari rettorati possano dare vita a veri seminari, a occasioni di confronto e dibattito mirati alla prospettazione di scenari e di programmi coerenti con le aspettative di una fascia generazionale che, giustamente, non vuole vivere il prossimo futuro con le criticità che da anni hanno caratterizzato e caratterizzano questo lungo “presente”.

Ercole Incalza