"Ho fatto un respiro profondo. Mi sono fermata un attimo e ho pensato a tante cose: alle persone che non ci sono più e ai familiari che da tanto tempo cercano la giustizia e la verità". Lunedì mattina il telefono di Silvia Bellizzi era ancora chiuso mentre lavorava quando a Roma la Prima Corte d’assise d’Appello bis pronunciava una sentenza storica che ribaltava quanto deciso in primo grado: 24 militari sudamericani sono stati condannati all’ergastolo per il sequestro e l’omicidio di 43 persone (tra cui 23 di origine italiana) tra gli anni settanta e ottanta nell’ambito della cosiddetta operazione Condor portata avanti nel continente per spazzare via ogni forma di dissidenza alle dittature. Tra questi c’era anche suo fratello Andrés Humberto "desaparecido" in Argentina dal 19 aprile del 1977.

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"Sono stati tanti anni di lotta dal 1999. Per noi oggi è un passo avanti per ottenere giustizia per la memoria dei nostri familiari scomparsi quarant’anni fa ma bisogna continuare. Qui in Uruguay c’è ancora tanto da fare". Silvia parla al termine della videoconferenza con l’Italia organizzata presso al sede del Pit Cnt a Montevideo. Insieme a lei c’è la madre Maria, 95 anni di San Basile (Cosenza), che è stata tra le promotrici del processo italiano insieme ad altre famiglie italouruguaiane. Si dice sorpresa per la sentenza mentre sorride aspettando la figlia che parla con i giornalisti. Tutti gli ufficiali e gli esponenti dei servizi segreti uruguaiani coinvolti nel processo Condor lunedì hanno ricevuto l’ergastolo per crimini di lesa umanità: Juan Carlos Blanco, José Gavazzo Pereira, José Ricardo Arab Fernández, Jorge Alberto Silveira Quesada, Ernesto Avelino Ramas Pereira, Gilberto Valentín Vázquez Bisio, Ricardo José Medina Blanco, Luis Alfredo Maurente Mata, José Felipe Sande Lima, Ernesto Soca, Pedro Antonio Mato Narbondo, Jorge Tróccoli Fernández e Juan Carlos Larcebeau Aguirregaray.

Tra questi l’unico a non essere processato in contumacia è Troccoli, ex capo dell’S2, il servizio di intelligence della Marina militare uruguaiana, trasferitosi in Italia nel 2007 per sfuggire a un processo in Uruguay grazie alla doppia cittadinanza. "Per la prima volta" -osserva Silvia- "è stato riconosciuto il piano Condor nell’ambito giuridico internazionale. Per noi è la sintesi della nostra lotta. Senza dubbio è un passo importante ma manca ancora la verità. Noi continuiamo a chiederci dove sono i corpi dei nostri familiari. Ecco perché dobbiamo continuare a lottare qui dove sono stati commessi i reati e dove esistono gli archivi, i documenti e le prove di quanto è successo che sono chiusi nei cassetti. Purtroppo manca la volontà politica".

In attesa delle motivazioni della sentenza che usciranno entro 90 giorni, secondo la famiglia Bellizzi ciò che è stato "fondamentale" per ribaltare il primo verdetto del 2017 sono state le prove presentate dai nuovi avvocati del governo uruguaiano che hanno dimostrato il coinvolgimento dei militari nei reati contestati e la collaborazione a livello regionale. "Nella sua strategia iniziale l’Uruguay aveva sottovalutato le prove e per questo diverse famiglie hanno chiesto e ottenuto altri avvocati. Adesso aspettiamo fiduciosi che venga scritta la parola fine con la Cassazione se ci sarà un ricorso. La giustizia italiana è l’esempio da seguire per l’Uruguay".

Matteo Forciniti