Narrano in queste ore che nel Pd l’avvicinarsi delle urne sia direttamente proporzionale al numero di messaggi che arrivano sul cellulare o sul tavolo del segretario, incitandolo ad abbandonare la sua flemma. Se è vero infatti che i leader arrivano in politica più o meno in due versioni, il muscolare e l’esitante, il cazzuto e l’accomodante, lo sgarbato e l’educato, il dominante e l’ascoltante, il pigliatutto e il diplomatico, sappiamo bene a quale dei due tipi appartiene Nicola Zingaretti: il tipo prodotto nelle fabbriche che sfornano il modello Prodi e Bersani, e che da qualche anno non si era trovato in circolazione; e che, proprio o forse soprattutto per questo, alle recenti primarie è stato scelto dagli elettori del Pd, con l’immenso sospiro di sollievo di chi pensa di potersi evitare, almeno per un po’, di svegliarsi e andare a dormire con le immagini, le parole e le mirabolanti avventure di un uomo solo al comando. Parlo ovviamente di Renzi, ma non solo.

Il leader del primo tipo è ormai il modello dominante da un bel po’ di anni. Moltiplicatosi in numero e atteggiamenti, domina la nostra dieta quotidiana di informazione e intrattenimento ma anche – per contagio e imitazione – il nostro habitat umano. La prova di forza, che spesso si confondono con sgarbo e insulto, sono diventati strumenti di classismo e cultura di genere. Il sospiro di sollievo con cui venne accolto poche settimane fa Nicola Zingaretti, con la sua noncuranza al messaggio dell’estetica, la sua "esse" debole, e il suo sorriso da parroco, possiamo considerarlo dunque non solo un consenso politico, ma anche una sorta di liberazione dal rischio acustico in cui la politica italiana ci ha immerso. La storia recente e lontana del Paese ha sempre raccontato che anche il sussurro, se non il silenzio, può essere una potente pomata politica: parlare a bassa voce significa ragionare, sostituire il dialogo all’ordine, e la composizione alla rottura. I primi passi di Zinga gli sono venuti infatti piuttosto facili: le liste unitarie, sogno di un partito da anni diviso, il lavoro di scarpe e gomito in tutto il paese, organizzato come una rivisitazione della cartina geografica del vecchio Ulivo, un pizzico di Europa, un pizzico di liberali, senza dimenticare i liberisti, hanno dato al Pd una impennata di consenso. In verità non una grande impennata, piuttosto un blip nel battito cardiaco di un paziente, comunque un segno di vita.

Ma a che punto il silenzio dell’operosità modesta diventa irrilevanza nella competizione pubblica? La polarizzazione acuta e in parte imprevista dentro la coalizione di governo ha infatti messo alle corde il modello soft power proposto dal leader Pd. Fin quando lo scontro è stato modulato su temi di programma, Zingaretti ha fatto chiarezza bene su due temi molto rilevanti per la identità del Pd nelle attuali more: si è impegnato a nessun accordo con i Pentastellati, sia pur in questa legislatura; e in caso di crisi di governo, si è impegnato a elezioni anticipate, rompendo così con il vizietto dei governi tecnici (in nome della responsabilità) che tanto hanno nuociuto alla reputazione del partito democratico dal 2011. Il segretario ha inoltre abbozzato una strategia sociale popolare per un Pd accusato di essere elite, opponendo al populismo i temi del lavoro, il recupero del rapporto con i sindacati, e del rapporto con le periferie vere e simboliche del paese.

Ma questa sua strategia, appena abbozzata, non ha avuto la forza personale e virale di inserirsi in un clima di grandi tensioni pubbliche; ed è andata in pieno recesso con la brusca virata della campagna elettorale sulla questione giudiziaria che ha cambiato il clima e anche i rapporti di forza dentro il governo. Le dimissioni di Siri, le inchieste, il clima di una infinita tangentopoli, hanno squadernato di nuovo le debolezze di tutti i partiti. I 5stelle hanno abilmente preso l’occasione per tornare i se stessi della prima ora, tornando a mietere consensi sulla campagna contro la corruzione. Ma per Forza Italia, Lega e Pd le inchieste hanno rimesso in discussione la buona novella del rinnovamento. Nel Pd, le risposte date dal nuovo segretario si sono rivelate deboli, come nel caso della governatrice dell’Umbria, Marini che è ancora al suo posto, nonostante la richiesta di dimissioni; o inesistenti, come nel caso di Oliverio in Calabria, e quello del sindaco delle fritture in Campania. Le iniziative dei giudici hanno insomma messo in chiaro il danno nel Pd di una mancanza di ricambio delle classi dirigenti, e il limite di una politica di appeasement come sembrava aver immaginato il nuovo segretario.

C’è infine il rapporto con il M5s, tornato, nelle circostanze, di nuovo centrale. La crescita dell’onda anti-Salvini, la reazione sociale contro i pericoli neofascisti, hanno di nuovo stretto il campo di sfida fra Pentastellati e Pd. Ora i due partiti sono di nuovo a competere per gli stessi voti, sugli stessi temi spesso. Con occasionali alleanze di fatto e slogan comuni. Che dire? Potremmo giustificare Zingaretti e dire che a lui è capitato di guidare il partito più ferito dalle scorse elezioni, e di divenirne segretario un mese prima che si avviasse la campagna elettorale. Ma faremmo un torto al segretario, che certo, a dispetto della sua bonomia, sa che un leader non ha bisogno di scuse. Dunque urge un’accelerazione di energie e di tempi, oltre che di parole. A dieci giorni dalle elezioni non si possono cambiare modi e temi. Ma dieci giorni sono sufficienti per impegnarsi in una competizione, che per il Pd non è persa, sia pur sul filo di lana. Zingaretti ha una sola strada: uscire dalla rassicurazione per tutti, provando invece a rivolgersi oltre il circuito della sinistra che conosciamo, parlando alla rabbia e alla delusione che muove il fondo mobile di questa prossima scelta elettorale. Tracciando ora, scegliendo ora le promesse, prima del 26 maggio, di quello che vuole che sia il suo Pd.

LUCIA ANNUNZIATA