Basta scorrere l’agenda di Matteo Salvini, che alle 18.45 di oggi prevedeva un incontro pubblico in un posto chiamato Tavernelle frazione Panigale, in provincia di Perugia, meno di tremila abitanti. E ieri un caffè in piazza a Passignano sul Trasimeno, poi una visita alla cooperativa di pescatori di San Feliciano di Magione, sempre in provincia di Perugia. E così via. Due, quasi tre giorni ogni settimana in Umbria, battuta palmo a palmo, come si faceva una volta, casa per casa, fino al 27 ottobre, giorno in cui si vota. Nessun leader nazionale e nessun partito ha ancora previsto una presenza così massiccia, e chissà se lo prevederà. Ecco, tutto dà il senso della più classica "battaglia della vita", adesso che per la prima volta nei sondaggi la Lega è scesa sotto la soglia del 30 per trenta per cento.

Le regionali come prova che il declino non è iniziato, come rivincita del popolo sovrano contro il potere arroccato nel Palazzo, la realtà che squarcia il velo di ipocrisia dell’operazione che ha portato alla nascita del governo. Il punto di novità è il "come". Salvini sta conducendo la sua campagna d’autunno, Umbria, Calabria, poi Emilia. Le parole che non ti aspetti le ha pronunciate coi suoi, quando ha spiegato le regole di ingaggio del nuovo corso, inusuali per l’uomo che ha avuto in mano il paese, con una certa arroganza e mal celato senso di onnipotenza. Le parole sono: "Allargare, coinvolgere, condividere". Ascoltateli questi comizi di Salvini, profondamente diversi rispetto a quando invocava pieni poteri, con un linguaggio da bettola appena aperta la crisi, o mostrando il petto volitivo nel trionfo di carne e costumi succinti al Papeete. Adesso non una parolaccia, non una recriminazione sul passato, non una proposta che spaventa, anche il linguaggio del corpo è più assertivo e meno bullesco.

L’aggettivo "istituzionale" è eccessivo, però è evidente il cambio di registro, a partire da come ha risuscitato lo schema della "coalizione di centrodestra", sia pur in forma nuova e non anni Novanta. È una novità politica non da poco, per un leader che solo tre mesi fa teorizzava la corsa solitaria, l’autosufficienza, il prosciugamento degli alleati in nome del voto utile e, a domanda sulle regionali, non considerava scontata la politica di alleanze. Al termine di uno dei tanti comizi umbri, un dirigente del suo partito gli ha portato un lungo elenco di "complimenti" ricevuti da associazioni di categoria e mondi imprenditoriali che hanno apprezzato questa nuova impostazione – l’Italia del sì contro l’Italia del no - ravvisando in essa un cambiamento positivo, quasi una maturazione: "Dicono che sei cambiato, in meglio". Risposta, in parte ironica, in parte seria: "Forse perché dormo tre ore in più… La verità è che forse non eravamo pronti, ma adesso ci stiamo preparando bene per ritornare".

Parlando con più di un dirigente leghista di alto livello, raccontano che "questa vicenda di agosto lo ha molto segnato e Matteo non è quello di prima, è un leader più maturo che ha fatto i conti anche con i suoi limiti, insomma ha un’altra consapevolezza". Per necessità o virtù o, come si diceva una volta, facendo di necessità virtù, siamo di fronte a un cambiamento nell’altra metà del campo. Il cui fil rouge è la "spallata" al governo e la costruzione, nel paese, di una alternativa, una sorta di ’94 salviniano. Non è un caso la scelta di Piazza San Giovanni, dove Salvini ha già chiesto di sventolare solo bandiere tricolori e non vessilli di partito. Piazza che, quando fu riempita da Silvio Berlusconi, preannunciò un imminente ritorno a palazzo Chigi. Non è un caso la risurrezione della coalizione, sia pur in forma nuova con Forza Italia, Fratelli d’Italia e liste civiche.

Nuova anche nella selezione dei candidati, come in Calabria, il cui candidato spetta a Forza Italia e dove ha posto il veto su Mario Occhiuto, il prescelto di una parte del partito di Berlusconi, coinvolto in più procedimenti giudiziari, con l’obiettivo di arrivare a una figura più potabile che dia il senso della novità. È chiaro: per vincere serve un voto in più dell’avversario e il realismo impone di allargare. La spallata, dicevamo, come obiettivo o speranza: terremotare il governo scossa dopo scossa. Di qui alle elezioni dell’Emilia a gennaio. Perché il grande timore è di non riuscire a gestire una lunga traversata nel deserto. Ecco, l’escalation: il 30 Calderoli andrà in Cassazione a depositare il quesito per il referendum sul maggioritario, incassata la richiesta di cinque regioni, il 19 la piazza a Roma, una valanga di trasmissioni televisive, poi l’Umbria il 27: "Se perdono Pd e Cinque stelle – spiegano i suoi – sarà più difficile per loro fare l’alleanza in Emilia perché l’esperimento civico è fallito e lì hai un governatore uscente su cui è più difficile fare l’alleanza".

Riccardo Molinari, il capogruppo alla Camera, è certo che la "scossa" arriverà perché gli elettorati non sono sommabili. E prevede un bagno di sangue per i Cinque stelle, denso di conseguenze in termini di fibrillazione. In Parlamento già si avvertono questi segni di inquietudine. Per caricare il clima il vicesegretario della Lega fa sapere che "una ventina di parlamentari dei Cinque stelle sono pronti a venire con noi". Non è proprio così. In parecchi stanno a guardare pensando alla via migliore per sopravvivere. La verità è che c’è un disagio, ci sono contatti con gente che si iscriverebbe alla Lega domani mattina se avesse un collegio sicuro, ma, appunto, solo dopo aver ricevuto una promessa depositata dal notaio, con firma di Salvini, altrimenti meglio garantirsi la sopravvivenza in questo Parlamento. Comunque non è il momento, non è maturo. Anche perché Salvini sa che, se per caso si perde in Umbria, è davvero il game over.

ALESSANDRO DE ANGELIS