Appena arrivati a Campotosto, percorrendo la via che costeggia quella che una volta era la piazza con la chiesa e il municipio (entrambi sono stati abbattuti), l’occhio cade su uno striscione legato a una delle transenne che impediscono di avvicinarsi alle case inagibili e alle voragini lasciate dalle demolizioni. Il vento e la neve lo hanno un po’ rovinato ma è ancora perfettamente leggibile. C’è scritto: "Via dei Fori Imperiali". Il paragone con l’omonima via di Roma, che collega il Colosseo a Piazza Venezia, dove sono visibili i resti dell’urbe antica, è iperbolico ma calzante. Oggi Campotosto - 1400 metri di altitudine, nel cuore del Parco del Gran Sasso - non è altro che un cumulo di rovine. L’80% degli edifici è inagibile e con danni strutturali. Molte, la maggior parte, erano seconde case, abitate soprattutto d'estate grazie al turismo di ritorno. Ma da due anni qui non torna più nessuno.

Quello che non erano riusciti a fare né il terremoto del 6 aprile 2009, che distrusse L’Aquila, né il sisma del 24 agosto 2016, che rase al suolo Amatrice e altri comuni del Centro Italia, lo ha fatto la scossa del 18 gennaio 2017, che arrivò, tra l’altro, nel bel mezzo di una tempesta di neve. Nelle quattro frazioni da cui è formato il comune – Campotosto, Mascioni, Poggio Cancelli e Ortolano – sono rimaste a vivere un centinaio di persone, su una popolazione residente di 600 abitanti. Una, Ortolano, è stata evacuata in seguito a una slavina che travolse, uccidendolo, un pensionato ed è completamente disabitata. Gli sfollati hanno trovato rifugio nelle casette di legno costruite nel 2009, che però non sono bastate per tutti. In attesa che vengano realizzate le 30 Sae (strutture abitative di emergenza) previste – ma ad oggi non ne è stata consegnata nemmeno una – molti non hanno potuto far altro che andar via.

La ricostruzione è completamente ferma: il Comune ha ultimato le demolizioni da poco ed è ancora alle prese con lo smaltimento delle macerie. In paese ci sono quasi solo anziani e pensionati. I cinque bambini rimasti vanno a scuola ad Amatrice ma non hanno nemmeno una piazza, una strada, uno slargo dove giocare (chiedere un parco o un giardino con dei giochi sarebbe troppo). È quasi un miracolo che sia ancora qualche trentenne che ha deciso, tenacemente e coraggiosamente, di resistere. Valeria ha 34 anni e un doppio passaporto, italiano e canadese (i suoi genitori, emigrati negli anni Sessanta, avevano preso la cittadinanza). Due anni fa, dopo la scossa, decise di andarsene a Toronto. Dopo un anno, però, è tornata. Troppo forte il legame con il paese, gli amici, le proprie origini.

Oggi vive in una delle poche case rimaste agibili e lavora nell’unico bar aperto, dentro un container: "Resistere, qui, è difficile" racconta "Ho lavorato per tanti anni al comune di Campotosto, dove mi facevo un po’ di tutto. Poi però non mi hanno rinnovato il contratto e quando c’è stata la scossa ho deciso di andarmene. A Toronto, dove c’è ancora una parte della mia famiglia, avevo trovato anche lavoro ma alla fine la nostalgia di casa ha prevalso. Qui ci conosciamo tutti, siamo una comunità". Il bar è aperto tutti i giorni ma più per fornire un servizio alla popolazione che perché convenga. "Se dovessimo badare solo agli incassi" dice il padrone del bar "avremmo già chiuso da un pezzo. Siamo aperti perché svolgiamo una funzione sociale. Gli unici punti di aggregazione rimasti sono la nostra attività e il centro polivalente degli alpini. E meno male che lo hanno costruito, e in fretta, almeno abbiamo un luogo dove riunirci".

Oltre al bar ci sono anche una farmacia, le poste, due alimentari, un emporio, una bottega di artigianato e uno sportello bancomat. Sono tutti dentro ai container. Tra i pochi edifici rimasti in piedi, c’è un laboratorio per la produzione della famosa mortadella locale ma le ordinazioni sono molto diminuite. I commercianti, che non hanno potuto usufruire nemmeno di contributi una tantum per ripartire, hanno provato a chiedere al comune di realizzare o di farsi donare un’area commerciale unica, all’interno della quale ricollocare tutti i negozi ma non hanno ricevuto risposta. Alcuni container, peraltro, essendo stati "riciclati" dal terremoto dell’Aquila, sono abbastanza malmessi. Uno funge addirittura da chiesa ma è troppo piccolo. "Così piccolo" racconta un abitante "che non possiamo celebrarci nemmeno i funerali perché le bare non passano attraverso la porta.

Quando muore qualcuno, tocca sperare che ci sia il sole, così possiamo fare il funerale all’aperto. Altrimenti dobbiamo andare altrove". Quissù, a 1400 metri di altitudine, non arrivano più nemmeno i giornali. Ne porta uno, qualche volta, l’ambulanza che sale fino a qui per garantire agli abitanti una postazione medica, visto che gli ambulatori più vicini, che si trovano a Amatrice e Montereale, sono lontani o troppo complicati da raggiungere (ad Amatrice la situazione è ancor più precaria mentre Montereale è rimasta a lungo quasi tagliata fuori perché la strada di collegamento è stata chiusa a lungo causa frana). Per non lasciare del tutto sguarnito il paese di un presidio sanitario, la Regione ha stipulato una convenzione (che scadrà a marzo) per assicurare almeno la presenza di un’ambulanza.

Roberto Ciuffini