Nel 2000, a causa della contestazione del voto in Florida, si dovette attendere il 12 dicembre per conoscere il nuovo presidente americano. In quella data la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarò l’esito elettorale in favore di George W. Bush, di fatto proclamandolo presidente.
Il tanto discusso voto per posta negli Stati Uniti, talmente controverso che il presidente Trump parla in questi giorni di un ordine esecutivoper sospenderlo, potrebbe aprire facilmente uno scenario analogo. Pensare di svegliarsi in Europa il 4 novembre e di leggere chi ha vinto le elezioni americane è, allo stato attuale, quanto mai irrealistico.
Molti Stati, sulla base della legislazione locale, consentono di anticipare la consegna del voto postale fino a 50 giorni. In realtà il Presidential Election Day Act, la legge federale che dispone dal 1845 che si voti "il primo martedì dopo il primo lunedì del penultimo mese dell’anno" appare in contraddizione con queste norme statali. Ma resta il fatto che già all’inizio di settembre diversi Stati potranno esprimere il loro voto.
Per questo il nuovo coordinatore della campagna elettorale del presidente Trump sta in fretta e furia predisponendo aggiustamenti alle agende e agli impegni, perché una cosa è impostare una campagna sapendo che si vota a novembre e quindi preparando, ad esempio, la October Surprise, e tutto un altro paio di maniche è sapere che molti americani voteranno fra circa un mese, in piena pandemia e crisi economica. Le norme sul voto postale consentono però anche di votare fino all'ultimo giorno utile, il 3 novembre, e conoscendo la situazione non esattamente brillante delle poste americane non è azzardato supporre che serviranno settimane per ricevere e scrutinare i voti espressi negli ultimi giorni utili.
A ciò si aggiungano gli immancabili ricorsi, che potranno riguardare vari Stati e richiedere molte settimane prima di finire di fronte alla Corte Suprema, come accade per l’elezione di George W. Bush.
Queste sono le principali questioni sul tavolo elettorale oggi, prima ancora dei tanti sondaggi per lo più inattendibili come accadde nel 2016, quando a 3 giorni dal voto di novembre il Princeton Election Consortium stimava per la candidata Hillary Clinton una possibilità di vittoria pari al 99 per cento.
Ma in generale ciò è accaduto durante tutta la storia delle elezioni americane, semplicemente ce ne dimentichiamo. Nel 1948 quando tutti, in prima fila il padre della sondaggistica George Gallup, predissero senza esitazioni una sonora sconfitta per Harry Truman dando come strafavorito il rivale repubblicano Thomas Dewey. Truman li derideva per l’inattendibilità delle previsioni e infatti fu eletto.
Nel luglio 1988 un sondaggio Gallup indicava il candidato dem Michael Dukakis, governatore del Massachusetts, al 55 per cento. Il 38 per cento per il repubblicano George Herbert Bush, vicepresidente uscente dell’amministrazione Reagan. Quindi 17 punti in meno. A novembre Bush sr. prevalse di 8 punti e divenne presidente. E va detto senza malizia che Dukakis all’epoca era un brillantissimo 55enne in grandiosa forma fisica e mentale, mentre oggi il quasi 78enne Biden non appare certo così presente e pronto.
Nel 2012, quando Barack Obama vinse contro Mitt Romney, oltre 1.200 diverse agenzie di rilevazioni realizzarono più di 37.000 sondaggi, con circa 3 miliardi
di telefonate. Il 90 per cento degli americani contattati si rifiutò di rispondere, e con 9 su 10 degli intervistati che rifiutano l’intervista è chiaro che il campione prescelto vede stravolta la sua attendibilità.
Tre settimane fa i dati dei sondaggi lasciavano già trasparire questa profonda incertezza, per non dire inattendibilità, sul metodo con il quale vengono svolti. La Quinnipiac University dava Biden a più quindici (52 a 37), YouGov individuava Biden a più diciannove (59 a 40), e per Rasmussen l’ex vicepresidente Biden era a più tre (47 a 44). In poco tempo, sempre secondo Rasmussen, il presidente in carica aveva diminuito lo svantaggio da 10 punti a 3.
Tanto che dieci giorni fa un sondaggio condotto in Ohio da CBS News/YouGov addirittura indica il presidente Trump davanti a Biden.
Non di molto, 46 a 45, ma secondo i sondaggisti si accrediterebbe la vittoria.
Sappiamo bene che "termometro" sia l’Ohio: infallibilmente dal 1948 al 2016, con la sola eccezione del 1960, il vincitore in Ohio è stato quello che è poi arrivato alla Casa Bianca.
La complessità del sistema elettorale americano, se guardato senza i pregiudizi degli americanisti del weekend, lascia aperte molteplici variabili tutte senza soluzioni scontate. Basta ricordare che nel 1984 l’allora candidato Walter Mondale ebbe ben il 40 per cento dei voti, ma riuscì per miracolo a portare a casa solo il suo Minnesota, uscendo sconfitto in tutti gli altri Stati. Una umiliazione senza precedenti, 13 grandi elettori contro i 525 dell’avversario Ronald Reagan. Questa è l’America. E speriamo, almeno entro Natale, che sia in grado di indicarci chi sarà il presidente che guiderà gli Stati Uniti fino al 2024.