Esistono due modi per commentare questo risultato. Osservarlo nella sua nettezza oppure offrirne una lettura politica. I due modi possono offrire spazio a considerazioni molto diverse, talora divergenti. La seconda, come noto, legge i numeri sempre all’interno dei contesti ed è molto attenta alle tendenze. Secondo il primo modo, il Sì vince in maniera nettissima e indiscutibile, anche se non è un trionfo, soprattutto se si considera l’apparente semplicità del quesito.

C’è poco da dire sulla nettezza di questa vittoria e anzi può aggiungersi con onestà intellettuale che nell’Italia del 2020 difficilmente il Sì avrebbe potuto soccombere in qualunque condizione si fosse votato. Ciononostante una lettura contestualizzata offre qualche spunto ulteriore, problematizzante. Partiamo dal contesto politico e dalle tendenze. Il No non è andato lontano dall’ottenere un terzo dei voti, nell’ambito di un referendum con affluenza più sostenuta di quanto era generalmente previsto, laddove era risaputo che un’affluenza alta avrebbe arriso al Sì.

Un risultato sorprendente, e per certi versi atteso e già scontato date le tendenze emerse in modo molto evidente nell’opinione pubblica più informata e appassionata di politica, ma nient’affatto scontato se consideriamo che quasi tutte le forze che avevano contribuito al voto parlamentare quasi unanime con cui è stata varata la riforma avevano confermato la posizione (Movimento Cinque Stelle, Partito Democratico, Lega e Fratelli d’Italia, a fronte della libertà di voto di Italia Viva e Forza Italia). Il campo delle forze reali era come noto più variegato ma questo dato di fondo resta. Personalmente stento ad ascrivere questo risultato sorprendente a questa o quella realtà organizzata, ma resta il fatto che dopo trent’anni di immersione nel discorso anti-politico colpisce che una fetta consistente di italiani senza alcun partito consistente alle spalle voti diversamente dalle indicazioni partitiche e si rifiuti di dare un voto che ritiene, evidentemente, di sapore demagogico. È una novità con cui fare i conti. Un dato in controtendenza almeno quando la boccata d’aria delle forze di governo e, in particolare, il successo incassato dal Movimento Cinque Stelle e fortemente spinto dall’impegno di Luigi Di Maio, dato che, come è stato evidente, il personale parlamentari del partito ormai aveva tutt’altri interessi che veder decurtare il numero dei parlamentari.

Ma in un bilancio onesto andrebbe considerato anche il contesto giuridico-istituzionale nel quale si è svolta la consultazione, con condizioni tutte contrarie a chi era schierato sul No, che accrescono il valore del risultato. Ne conto quattro.

Primo. La scelta del governo di abbinare il referendum costituzionale – per la prima volta – a turni di elezioni, reputando di guadagnare posizioni al Sì con una più alta affluenza, come puntualmente è avvenuto, in misura direi eclatante (come dirò in chiusura).

Secondo. La decisione della Corte costituzionale – firmata dal giudice Amato - di rigettare, con argomentazioni discutibili, il ricorso dei promotori del referendum che lamentavano la lesione del diritto all’informazione e delle peculiarità del referendum costituzionale conseguente alla decisione dell’abbinamento, che impediva un dibattito pubblico esclusivo su una modifica della Costituzione.

Terzo. Il modo in cui il Partito Democratico si è costituito a favore del Sì negli spazi istituzionali deputati prima di decidere formalmente la posizione da tenere sul referendum e come, successivamente, la sua Commissione nazionale di garanzia abbia rigettato con argomentazioni inconsistenti un ricorso con cui si lamentava a questo proposito la violazione dello Statuto in punto di partecipazione degli iscritti alla linea e di diritto all’informazione. Non può sfuggire che una parte significativa di questa campagna referendaria si è svolta all’interno di questo partito, nel suo "popolo".

Quarto. Infine e soparattutto la notevole scorrettezza tenuta da tutte le emittenti televisive che non hanno garantito il diritto all’informazione e la parità di armi in modo corretto, come comprovato da numerose delibere dell’AGCOM che hanno espresso per tutta la durata della campagna elettorale biasimo e chiedevano in modo pressante un riequilibrio, che non v’è stato.

Cito una di queste: "alla società RaiRadiotelevisione Italiana di procedere nei notiziari e nei programmi diffusi dalle testate […] ad una immediata e significativa inversione di tendenza rispetto a quanto rilevato, continuando ad assicurare adeguati spazi informativi all’iniziativa referendaria allo scopo di offrire all’elettorato una consapevole conoscenza del quesito oggetto del referendum medesimo, ma avendo cura di rappresentare e dare voce in maniera corretta, completa ed equilibrata alle due opzioni di voto. In particolare, le testate dovranno assicurare il riequilibrio delle posizioni nei notiziari e nei programmi".

Niente. Anzi negli ultimi giorni è successo di peggio, con Di Maio che ha sproloquiato a reti unificate e senza contraddittorio, segno che il governo è sceso una volta di più a gamba tesa in questa campagna referendaria. Un’inflazione mediatica ancor più paradossale alla luce del fatto che in buona parte delle tribune politiche le postazioni del Sì sono rimaste vuote, vuoi per sfuggire dal contraddittorio, vuoi per le divisioni interne alle forze politiche. E così abbiamo avuto una campagna referendaria breve, concitata, frammista con la propaganda di diverse migliaia di candidati di un’importante turno di regionali e di amministrative, nella quale molti italiani non sono stati raggiunti da un’informazione né sufficiente né corretta ed equilibrata.

Non è questo che immaginavano i Costituenti quando intendevano rimettere ai cittadini in ultima analisi l’entrata in vigore di una revisione. Sul presidente Conte e sui Cinque Stelle c’è poco da aggiungere. Deprime il ruolo fazioso svolto dal governo ma mette soprattutto tristezza il gioco a cui si è prestato un partito – il Partito Democratico, attraverso la sua Segreteria - che si considera un partito popolare e un partito delle regole e che, come visto, ha molta difficoltà a farle rispettare al proprio interno. Tutto ciò colpisce ancora di più, e qui il cahiers de doléance si fa dato politico, perchè questa scorrettezza realizzatasi su più fronti non è stata rivolta contro uno schieramento partitico avverso - che non c’era - ma contro milioni di cittadini che hanno maturato una posizione spontanea, grossolanamente indirizzati dall’azione e dagli argomenti offerti da Comitati di varia tendenza.

Senza abbinamento con elezioni (basti pensare che l’affluenza al referendum in Campania e Puglia, dove si votava per la Regione, è stata pari al 61%, a fronte della Sicilia con un’affluenza del 35%) e rispettando le regole previste dall’ordinamento probabilmente il risultato finale forse - ma gli statistici potranno dirci di più, sempre in termini ipotetici - non sarebbe cambiato, ma la proporzione delle due posizioni certamente sì e di molto. Personalmente sono contento che abbiano votato più persone ma avrei preferito che ci fossero arrivate per esprimere un voto consapevole e informato.

Piuttosto che da una bassa affluenza preferisco pensare che è da una corretta e compiuta informazione che sarebbe potuta arrivare dal No non un semplice segnale di una svolta culturale, quale è oggi, ma un vero terremoto politico e una severa lezione alla politica che sega il ramo su cui è seduta.

di MARCO PLUTINO