L’altare si trova nel cuore di Napoli, a pochi passi dalla Cappella San Severo e dal Cristo Velato. E in piazzetta Nilo, al Bar Nilo, c’è ancora l’edicola votiva in suo onore, a quasi 30 anni dall’ultima partita ufficiale con la maglia del Napoli, prima del traumatico distacco. Ritagli di giornali, foto, tracce di Diego giovanissimo, uomo, con il Napoli, con l’Argentina, da allenatore. Nonostante l’arrivo del Covid-19, è meta di un pellegrinaggio laico, come il fantastico murales rinfrescato ai Quartieri Spagnoli e agli altri luoghi di culto disseminati nel capoluogo campano, per i turisti, per i ragazzi di Napoli che gli dedicano cori ma che mai l’hanno visto giocare. Solo filmati su YouTube e i racconti con lacrime agli occhi e sospiri di padri e zii. Lui invece, Diego Maradona, 60 anni il 30 ottobre, si trova nell’altra città della sua vita, a Buenos Aires.

Allena il Gimnasia La Plata, preso lo scorso anno all’ultimo posto in classifica, con migliaia di spettatori alla presentazione ufficiale. Nonostante in panchina avesse collezionato una serie infinita di insuccessi, anche alla nazionale argentina che lui, da solo, ha portato al titolo mondiale, a Città del Messico nel 1986. Tutti con lui, per lui. Perché lui è Maradona. È quel cespuglio, ora brizzolato, che ha esordito su un campo fangoso di Serie A argentina a 15 anni e 11 mesi con un tunnel al suo marcatore. La prima del più forte di tutti i tempi, locuzione che si usa spesso per lui e per Pelé, che ha compiuto 80 anni qualche settimana prima. I fenomeni degli anni pari. E ancora quel ragazzino che non faceva mai cadere la palla sulla terra battuta di Villa Fiorito, la Villa, la sua prima casa, acquistata da don Diego Maradona, il papà a cui ora somiglia tantissimo, appena arrivato il posto fisso, da operaio in una fabbrica.

Giornate con gli amici del posto a giocare sul campetto spelacchiato, Estrella Roja. A Buenos Aires già circolavano voci sulla sua grandezza: «Quiero ser campeon del mundo, con Argentina», davanti a una telecamera della tv argentina. La sua innocenza, il suo pensiero costante verso la palla è ancora lì, la fabbrica di beffarde traiettorie che hanno messo per terra i migliori difensori mondiali. Che hanno costretto a figuracce fenomeni come Baresi e Maldini, che hanno costretto gli inglesi, beffati pochi minuti prima per il gol con la mano, la Mano de Dios, a rincorrerlo per cinquanta metri, quel ciuffo di riccioli e la palla, incollati. Non gliel’hanno mai perdonata nel regno di sua Maestà. E Diego mai si è scusato. A modo suo, rivendicava le Malvinas, le Falkland contese da Argentina e Regno Unito, un pezzo di storia fatto di morti, una guerra di due mesi che vide il successo dei britannici. Maradona è stato puntualmente escluso da ogni classifica dei migliori dello scorso secolo sui quotidiani, sui tabloid. Come a volerlo costringere all’oblio. Impossibile.

Anche ora, che Diego è in piedi a stento, parla a rilento. Sono le tracce di una vita che ne vale dieci, 100 delle nostre. Nel bene e nel male. Si ravviva solo nelle vicinanze di un pallone. Un palleggio, due, tre. Cinquanta. Le ginocchia hanno ceduto più volte, si è dovuto far operare. Sono martoriate, con cartilagini inesistenti: è il saldo di tutti i calci subiti in 20 anni di carriera, dei fallacci di difensori e centrocampisti allucinati da quel talento magico e spesso costretti ad atterrarlo, ma proprio perché dovevano. E anche delle infiltrazioni che venivano praticate nel calcio degli anni Settanta e Ottanta e anche un filo oltre: da Baggio a Batistuta, come Diego altri campioni convivono con dolori, operazioni, artrosi alle ginocchia. Diego non lascia nulla al caso, vive i suoi dolori senza nasconderli. Il re è volutamente nudo, il suo deterioramento fisico è crudo, visibile. Quasi sfacciato. Iggy Pop, Jim Morrison nel 1970, prima del viaggio finale a Parigi, Papa Giovanni Paolo II. Il consumo del corpo esibito davanti ai fedeli.

E sfacciata è ancora la lingua. I potenti infilzati, da Blatter a Platini, prima ancora Havelange. E poi Pelé, appena il secondo, dopo di lui. Anzi, il terzo. «Credo che il migliore di tutti fosse Alfredo Di Stéfano, è stato superiore a tutti, incluso io. Pelé probabilmente non ha mai voluto accettarlo, ma nemmeno i suoi amici che hanno inventato un premio alla carriera per consacrarlo», spiegava Diego a TyC Sports. Sessant’anni. Non era scontato ci arrivasse, anzi ha provato un paio di volte a saltare l’appuntamento. La droga, la compagnia di quasi metà esistenza, le cure, le ricadute, il soggiorno a Cuba con capigliatura platino, le chiacchierate con il sigaro con Fidel Castro. E poi, gli psicofarmaci, l’infarto, la morte a un passo, il cuore che funzionava solo in piccola parte. E la resurrezione, una delle tante, il ritorno al calcio, tra alti e bassi nella vita sentimentale, tra Dubai e Argentina. Senza di lui, il calcio è divenuto altra cosa. Tanta plastica, selfie, social, acconciature, frasi di circostanza. Apparenza, meno essenza.

Certo, ci sono fuoriclasse che resteranno senza tempo. Cristiano Ronaldo, soprattutto Leo Messi, il suo erede, degno di accomodarsi al tavolo del suo talento assieme (forse) a un altro paio di iniziati, Messi forse anche superiore in alcuni momenti della carriera, più gol, più assist. Ma lui è Maradona, è altro. È ancora l’epica del calcio, dello sport, anche se appannato e stranamente silenzioso da qualche tempo, forse intristito dal Covid-19 e da una parabola familiare che l’ha portato lontano dalle amate figlie. È ancora l’epitome della sfera che rotola: Cristiano Ronaldo, qualche anno fa e già con la collezione di Palloni d’Oro, lo vide agli allenamenti del Real Madrid: autografo e occhi che luccicavano come quelli di un bambino che desidera un’altra fetta di torta di mele. E lo stesso avviene per José Mourinho, Francesco Totti, talentuosi e vincenti, privilegiati del Gioco ma consapevoli che davanti a tutti resta solo e soltanto lui. Diego.

Nicola Sellitti