Se è vero che l'Italia postdemocristiana si può conquistare senza il sostegno della Chiesa, in cabina elettorale, ma non si riesce a governare in cabina di comando, senza di essa, bisogna convenire che vale simmetricamente la reciproca: ossia che la Curia e il Vaticano si possono espugnare in conclave ma non si lasciano gestire, tanto meno riformare in maniera duratura, senza il supporto di una gerarchia e classe dirigente italiane.

Lo attesta e comprova significativamente la parabola del Papa venuto dai confini del mondo. Eletto con il mandato di emarginare i cardinali nostrani, considerati responsabili di Vatileaks, ma poi costretto ad arruolarli - al netto della brusca epurazione di Angelo Becciu - come i soli capaci di arginare la degenerazione nonché tracimazione del fenomeno su scala globale: con il passaggio dalle lotte tra gruppi regionali a un paesaggio di conflitti tra cordate internazionali.

Cambia dunque il profilo biografico e caratteriale, non la filiera logistico - territoriale. La tendenza ideologica, non la provenienza geografica, riconducibile in ogni caso al Belpaese.

Così, al vertice dei due ministeri che contano e concentrano l'hard power politico - economico, gli Esteri e il Tesoro, troviamo il veneto Pietro Parolin, Segretario di Stato, duttile tessitore della diplomazia ecclesiastica, e il pugliese Nunzio Galantino, presidente dell'APSA, inflessibile amministratore del patrimonio della Sede Apostolica. Con l'aggiunta delle forze d'élite, di pronto intervento, melitensi e gerosolimitane, mobili e immobiliari, degli "Ordini" di Malta e del Santo Sepolcro, agli "ordini" dei fidati, porporati, Silvano Tomasi e Fernando Filoni.

Per non parlare del soft power: ambito in cui Paolo Ruffini, a motivo della dote di mediatore oltre che comunicatore, comprovata lungamente in Rai, è stato preferito ai guru dei network d'oltreoceano. Primo laico a ricoprire l'incarico di prefetto di un dicastero, la neo istituita, strategica holding che razionalizza e accorpa i mezzi d'informazione: un monocolore, si sarebbe detto un tempo, dal momento che è italiano tra gli altri anche il direttore della Sala Stampa e portavoce papale, Matteo Bruni, dopo le dimissioni di Greg Burke, americano dell'Ohio, con duplice imprinting di Fox News e dell'Opus Dei.

Analoga estrazione nazionale, anche se non professionale, trattandosi di un mix di giuristi ed economisti, accomuna i quattro vigilantes e figure chiave, diversificate ma nevralgiche, delle inchieste che stanno scuotendo ab imis fundamentis la curia e le sue propaggini, tra il Tamigi e il Tevere, rovesciandola come un calzino, senza imbarazzo alcuno per il filamento e pigmento di quest'ultimo, fosse pure l'arancio smagliante del cardinalato: un quadrilatero composto in primis da Giuseppe Pignatone, presidente del Tribunale Vaticano, ascoltato consigliere di Bergoglio in materia giudiziaria e dal PM Giampiero Milano, firmatario di ordini di arresto, perquisizioni e avvisi di garanzia, che azzerano le immunità e caratterizzano la fase presente con una impronta inedita e a metà, tra stato di polizia e di pulizia. Inoltre i titolari delle due authority anti- corruzione e anti riciclaggio: Alessandro Cassinis Righini, succeduto "ad interim" a Libero Milone dopo la sua rimozione ma nel frattempo cresciuto d'intraprendenza e di poteri. E Carmelo Barbagallo, il capo dell'Autorità di Supervisione (sullo IOR) e Informazione Finanziaria, tornata oggi nei ranghi alla originaria sinergia, e cordone ombelicale, con Bankitalia, dopo il costoso, disinvolto intervallo alpestre, da spot pubblicitario, dello svizzero René Brühlart, giunto dal paradiso, fiscale, del Liechtenstein.

Un trend che ha trovato la conferma di maggior peso sul terreno del concistoro, in fase di "qualificazione al mondiale", aumentando il numero dei rappresentanti e consolidando il ranking con un punteggio esaltante: Italia – Resto del mondo, sei a sette.

O sei su tredici, se consideriamo il totale dei nuovi cardinali, con diritto di voto e non, insigniti della porpora il 28 novembre scorso: quasi la metà. Un terzo, escludendo gli ultraottantenni e limitandoci agli elettori. Che in tempi e termini di globalizzazione vuol dire segnatamente una enormità. O abnormità, in ossequio ai diversi, contrastanti punti di vista. Come se Bergoglio anziché sul capo dei singoli prelati avesse posto la berretta rossa sulla chioma del Paese stesso, in guisa di moderno, eterno elmo, e zucchetto, di Scipio, restituendo alla penisola, il primato e la centralità perduti nell'ultimo conclave, per volontà e con intento punitivo della coalizione che allora lo aveva portato al soglio. Riconoscendo soprattutto, dopo sette anni di pontificato, che senza Italia e italiani, come osservavamo nell'incipit, non si governa il Vaticano: prerogativa di una diplomazia curiale immune ai nazionalismi e avvezza in automatico, per attitudine, a esprimere una visione tout azimut, unitaria e non settaria del mondo. Con l'APP insomma ed extension dell'universalismo naturalmente incorporata, o sacramentalmente incardinata, nell'hardware e nel DNA della romanità.

Uscita con una diminutio di status dalla porta e rientrata, letteralmente, dalla finestra (quella da cui Francesco annuncia i nominativi dei prescelti) con un surplus cardinalizio, l'Italia quindi recupera il gap e viene pienamente reintegrata nel ruolo di azionista di riferimento dell'unica istituzione internazionale che parla italiano: la Chiesa Cattolica, con un miliardo e trecento milioni di effettivi.

Attrazione fatale, magnetica e urbanistica, simbolicamente raffigurata nella ubicazione della Farnesina, il Ministero degli Esteri, cha a differenza degli altri edifici del potere si colloca sulla medesima sponda del Tevere, rispetto alla sede petrina, senza bisogno di attraversare un ponte: iscrivendo nella topografia dell'Urbe un'aderenza di azioni e d'intenzioni che, salvo brevi parentesi (ad esempio durante il governo gialloverde), riscontra sintonica, sincronica corrispondenza di posizioni e proiezioni nella geografia dell'Orbe. Risentendo del contatto ravvicinato con la superpotenza e riflettendone la influenza e visibilità globale

Mai così valorizzata. Eppure mai così penalizzata. Quanto più l'Italia risalta, infatti, per il numero di nomine di cui è gratificata, tanto più la Conferenza Episcopale, al contrario, risulta ridimensionata, e mortificata, per l'assenza di persone a essa riconducibili. Accompagnando e contrassegnando il settimo concistoro di Bergoglio con un evidente, stridente paradosso, localizzato tra il Salento e la Padania.

In primis il Salento (già terra di provenienza del Cardinale Vicario Angelo De Donatis, nativo di Casarano, e oggi di Marcello Semeraro da Monteroni, new entry del sacro collegio, sostituto del defenestrato Becciu al dicastero delle Cause dei Santi): appendice di Puglia puntata come un dito a indicare la direzione Sudest, a trazione mediterranea e orientale, che Francesco ha impresso alla Chiesa italiana, scegliendo Bari e le Puglie per due appuntamenti geo-religiosi di prestigio: i summit dei patriarchi del Middle East, a luglio 2018, e vescovi rivieraschi del mare non più "nostrum", a febbraio 2020.

Poi la Padania e il Nord, in generale: privo di porpora non già unicamente sull'asse industriale Milano – Torino. Bensì sul litorale, navale, di Genova e Venezia. Quasi a mollare gerarchicamente il tradizionale ancoraggio europeista, occidentale, atlantico e degasperiano, per iniziare un viaggio sudista, terzomondiale, afroasiatico e lapiriano.

"La Chiesa italiana ha un rospo".

Al di là dell'anatema congiunturale, che denuncia una cesura - censura con l'episcopato di destra, l'immagine anfibia di Padre Spadaro evidenzia il problema strutturale di ogni Papa: obbligato, in attesa di una lenta metamorfosi da turnover, a condurre il gregge con i pastori designati, nel peridio intermedio di una decade, dal suo predecessore.

Così se l'ottavo anno del pontificato di Giovanni Paolo II marcò la svolta conservatrice della CEI, con l'ascesa della stella di Ruini, seguita per un quarto di secolo da una scia di candidature di matrice moderata, il concistoro 2020, nell'anno ottavo di Francesco, con le investiture di sei cardinali progressisti, sancisce il sorpasso e allineamento sulla corsia di sinistra.

E se nei "collegi" un tempo sicuri delle diocesi considerate cardinalizie, all'ombra della Mole Antonelliana e del Leone Alato, resistono, assonanti tra loro ma distonici dal nuovo corso, Cesare Nosiglia e Francesco Moraglia, epigoni di Ruini e di Bagnasco, il Collegio, quello sacro, va in provincia e ritaglia un posto a due cinquantenni con diritto anagrafico di lunga sosta, discesi dal Monte Subasio e dai colli senesi: Mauro Gambetti, frate ingegnere, che per il saio disse addio alla ragazza e all'azienda di famiglia. E Augusto Lojudice, parroco borgataro, che da Tor Bella Monaca non avrebbe immaginato di approdare sotto la Torre del Mangia. Dai campi nomadi a Piazza del Campo, dal degrado di ruderi diroccati ai gradini di Rocca Salimbeni.

Prossimo, in pole position, appare in prospettiva Domenico Battaglia, neoarcivescovo di Napoli, che insieme all'altro prete di strada, il felsineo - trasteverino Matteo Zuppi, cardinale da un anno e da cinque installato a Bologna, modifica decisamente, incisivamente i tratti e il volto, teologici e antropologici della CEI.

Una trasfigurazione vera e propria: versione mistica, e mitica, del trasformismo italico, che indica in prima istanza una completa discontinuità. Ma sulla distanza mostra una concreta continuità. Fornendo ai nocchieri che si succedono alla guida dell'imbarcazione un ceto variegato, diversificato di marinai capaci di navigare sottocosta o in mare aperto, ripiegando nel porto dei valori non negoziabili o issando le vele del dialogo a tutto campo. E offrendo alla Chiesa universale una rosa "dei venti", con un ventaglio di personalità e un bagaglio di professionalità in grado di coprire, come si addice alle berrette rosse, nomen omen, i quattro punti "cardinali". L'Est e l'Ovest, il Nord e il Sud, tenendo il timone a destra oppure a sinistra, conforme alla corrente del momento, ma nondimeno mantenendo saldamente, solidamente l'Italia al centro.

Piero Schiavazzi