Genova e la Liguria in piazza per disperazione. Il petardo fumogeno scoppia tra la fontana di piazza De Ferrari e le finestre del presidente Giovanni Toti, nel palazzo della Regione. Il fumo sale nel cielo grigio, proprio quando gli speaker dell’ultimo lunedì di protesta invitano alla calma, a non esagerare. Ma la Liguria non ce la fa più. In piazza ora ci sono centinaia di dimostranti, che vengono dalle categorie fino a ieri più silenziose nella protesta da lock down. Sono gli uomini e le donne del mondo dello spettacolo. Gli agenti di viaggio e di turismo che tengono le saracinesche chiuse da un anno esatto. Il personale delle palestre e delle piscine,. I gestori degli impianti sportivi. E dietro ci sono i ristoratori, i baristi, i pizzaioli. Chiunque abbia un esercizio commerciale strangolato dalle chiusure a singhiozzo. Stretto tra i coprifuochi serali. Appeso ai delivery, agli asporti, piccole luci di lavoro in un deserto buio. “Non mi vergogno più a piangere davanti a tutti”, urla dal palco una agente di viaggio, che confessa il suo disastro, zero incassi da 365 giorni, zero prospettive.

LACRIMOGENI A GENOVA COME AI TEMPI DI TAMBRONI I lacrimogeni riempiono la piazza simbolo della protesta. Quella delle rivolte operaie, dei “camalli” contro il governo Tambroni nel “mitico” 1960. Di ogni rivolta sindacale, quando le tute blu a Genova erano quasi duecentomila. Quella dei funerali dell’operaio Guido Rossa, ucciso dalle Brigate Rosse. Quella assaltata dal blak bloc durante il G8 del 2001. Ora che venti anni dopo Genova e la Liguria non ne possono più per i danni della pandemia, la scena si riempie di protagonisti diversi da quelli. Ora sono attori, cantanti, teatranti. Personale che viveva per far funzionare teatri, teatroni e teatrini, i cinema, le sale concerto, le orchestre, i palchi delle manifestazioni di spettacolo di ogni genere. E’ l’ultimo urlo che si alza, a un anno dall’inizio, quando nulla di tutto questo era immaginabile. Ma ce ne saranno altri di urli in un inverno che sta per finire mache non fa sperare in nulla. Neppure in una primavera diversa dall’ultima, vissuta sotto la mannaia del lock down duro e totale. E neppure in un’estate di spensieratezze, come l’ultima incosciente e colpevole. Ci saranno altre proteste, come questa che sembra quasi un’onda discendente verso la grande piazza. La Liguria non ne può più. Aveva conquistato una risalita turistica nell’estate “leggera” e un po’ irresponsabile. E ora affonda nella stagione più cupa della sua storia recente.

ORCHESTRE IN PIAZZA A GENOVA Si mette a suonare una orchestrina improvvisata davanti al Teatro Carlo Felice, sotto il pronao storico. Che guarda la piazza, il cavallo della statua equestre di Garibaldi. E ti vengono in mente le note severe di quella volta che proprio l’intera orchestra del Carlo Felice stesso era scesa su quella piazza a pieno organico. Con tutti i suoi strumenti e il direttore su un piedistallo. Per ritmare una grande manifestazione, dopo i tagli del governo alle aziende Iri che stavano entrando in una profonda e irreversibile crisi. Ma oggi il clima è molto più pesante e disperato di allora, anche se i protagonisti sono così diversi. Un’altra orchestra davanti al portone della Prefettura suona l’inno di Mameli. Ed è come se fosse un urlo di disperazione. Che riassume tutto quello che sta succedendo nelle strade e nelle piazze. In una mattina di febbraio con i bar aperti solo per portarsi via il caffè nei bicchierino di carta. E i ristoranti chiusi dalla zona arancione. La Liguria non ne può più. I seguiti terrificanti della tragedia del ponte Morandi, che oramai è datata due anni e mezzo fa, stanno bloccando di nuovo tutte le autostrade. Paralizzate da cantieri in ogni tratto, con code interminabili, come era già successo nei primi mesi del post primo lockdown. Ma ora capita in ben altro periodo e si ripete anche peggio di prima.

A GENOVA DOPO ORE DI CODA Genova è raggiungibile solo dopo code interminabili sulla A 7 e sulla A 26. Che arrivano da Milano, sulla A 10. Che arriva da Savona e dalla Francia. E sulla A 12, che arriva da Livorno. I lavori di una manutenzione, che non si faceva decentemente da decenni, smascherata dai morti del Morandi e che le società concessionarie hanno deciso di realizzare tutti insieme, provocano il caos. Un bambino di 5 anni ha rischiato la vita dopo un incidente, perché l’ambulanza che stava cercando di trasportarlo all’ospedale Gaslini di Genova, ci ha impiegato due ore. Percorrendo una strada statale intasata anch’essa.

I TIR SE NE VANNO I Tir che devono entrare e uscire dal porto, che è il primo per traffici in Italia, affrontano ore e ore di code. E alla fine preferiscono altri porti, altre strade, altre città. Il traffico che scoppia in autostrada tracima perfino in città e blocca la circolazione intorno ai caselli. Un vero inferno. Il processo per i 43 morti del Morandi imbocca la strada che sta per portare al rinvio a giudizio di 65 persone. Tra funzionari delle Autostrade, controllori dei ministeri, papaveri delle concessionarie. Ma la sua ricaduta di inchieste piomba come un ricatto su tutta la rete ligure. Solo su questa, 300 gallerie da rifare, centinaia di viadotti da ispezionare, chilometri e chilometri di corsie uniche, di salti di corsie. Mentre la merce arriva sulle banchine con il contagocce. La Liguria non ce la fa più a fare i conti con il destino di questo biennio tragico, che non è solo il terribile Ventiventi, ma ora è anche il Ventiventuno. Se vogliamo leggere i segni del disastro, allora che cosa è il crollo del cimitero di Camogli, una cui ala intera a picco sul mare si sfarina. E precipita con una frana spaventosa, portando in acqua duecento bare, uscite dai loculi sbriciolati. Una scena apocalittica su uno degli orizzonti più belli del mondo. Il porticciolo incantato di Camogli e sul lo sfondo il promontorio di Portofino, fino alla Punta Chiappa. Mare blu, vegetazione fantastica a picco. E ora quei feretri, quei sacchi funebri che galleggiano sinistramente. E le motovedette della Capitaneria, i pescherecci, i sommozzatori, che compiono il pietoso recupero, qualcosa che non era neppure immaginabile nel più sinistro film dell’horror. La Liguria non ne può più, perché il mare, da quel terribile ottobre 2018 della tempesta perfetta, martella le sue coste. Si mangia le spiagge da Levante a Ponente. E ora si mangia la terra sotto la collina che reggeva il cimitero, dove pensavano di riposare in pace per l’eternità. E, invece, succede questa Apocalisse, che sconvolge quel pezzo di paradiso. Dove gli abitanti sono costretti a ricorrere agli psicologi per reggere lo choc di avere visto i resti dei loro cari sprofondare in mare. LE BARE DI CAMOGLI E allora oggi il cimitero di Camogli. Domani magari quello di Sori, a pochi chilometri da qui, sospeso sugli scogli e sull’acqua. Dove riposa, tra gi altri, Paolo Villaggio. E forse un piccolo sorriso può spuntare, pensando a come commenterebbe quello che sta succedendo il grande comico genovese. Dissesto idrogeologico, quello che mina i ponti e i viadotti delle autostrade. Le gallerie rosicchiate nelle loro volte dall’acqua di un inverno piovosissimo. E cambiamento climatico, che alza il mare e lo porta a divorare la costa, le spiagge del fu gran turismo. Che piange in quelle piazze della disperazione per il lavoro perso nelle chiusure, nelle limitazioni dei DPCM, che non finiscono più. Si cercano segni di speranza, ma non si trovano o arrivano a fatica. E poi, in una sera inaspettatamente dolce di questo febbraio da dimenticare, una incredibile e inusuale nebbia sale da quel mare che ha appena “preteso” il suo macabro recupero dal cimitero sbriciolato. E copre tutto da Levante verso la città. Non è nebbia, ma “caligo”, un fenomeno rarissimo, scatenato da differenze di temperature tra il mare freddo e la temperatura dell’aria insolitamente alta. E diventa come una grande coperta grigia dove sparisce tutto. Perfino la Lanterna di Genova, le grandi navi ferme nel porto da mesi e mesi per lo stop delle crociere. Le banchine sofferenti per il traffico a singhiozzo. Il silenzio improvviso è rotto dalle sirene delle navi in arrivo, che non vedono più di colpo la loro rotta. Ed è un concerto improvviso, mai sentito. E anche questo sembra un segno dal cielo, anzi proprio dal cielo e dal mare, che arriva sulla Liguria che non ne può più. Meglio non vedere, meglio aspettare che ogni nebbia (o caligo) diradi, meglio cercare in quel grigio una luce.

Franco Manzitti