Confesso che lo scorso anno, di questi tempi, non mi ero preoccupato in eccesso del COVID 19. Pensavo che la sua durata non superasse l’anno, che il numero dei morti sarebbe stato molto contenuto in rapporto alla letalitá in generale e poche e accurate misure avrebbero risolto il problema. La mia attenzione specifica era sul fronte lavoro, in quanto temevo (e ancora oggi temo) che gli effetti sull’impiego sarebbero stati durissimi. Ma ció che non immaginavo lo scorso anno era il propagarsi del virus attraverso nuove forme, che lo rendono piú contagioso e letale. I numeri delle “zone rosse” del pianeta non dovevano preoccupare l’Uruguay, una vera e propria “isola” colpita da pochi contagi. E invece anche l’“isola” rioplatense comincia a far acqua nella pandemia con contagiositá e una letalitá (in percentuale alla popolazione di soli 3 milioni di abitanti) tra le piú alte del mondo.

Oggi capisco la preoccupazione dei medici sull'occupazione delle unitá di terapia intensiva. Lo specialista in medicina intensiva Alvaro Niggemeyer ha detto in una recente intervista che le Unitá di Medicina Intensiva sono saturate e giá i medici cominciano a dover scegliere - secondo nome etiche molto precise -, quali sono i pazienti con maggior speranza di vita, per applicare solo a questi ultimi le risorse tecnologiche disponibili. Ci chiediamo tutti come sia successo? Per rispondere basta rigirarsi per alcune zone di Montevideo, per scoprire quanta irresponsabilitá vi sia negli assembramenti di centinaia di abitanti, che pensano che il virus é destinato agli altri e non a loro. Abituato a girare per le strade della “Ciudad Vieja”, la city di Montevideo, non mi era sembrato allarmante il numero di persone in circolazione, tutti prudentemente protetti da mascherine. Ma ecco che due giorni fa sono dovuto recarmi ad un altro quartiere, noto con il nome della sua strada principale: “8 de Octubre”. È difficile spiegare la quantitá di persone nei negozi, per le strade, sui marciapiedi a barattare prodotti di contrabbando, o concentrati in una fermata del pullman.

La prima impressione di quel pomeriggio di sole é che fossi entrato - cosí come succede in alcune serials di successo di Netflix - in una dimensione parallela, in cui il coronavirus fosse scomparso o mai esistito. Centinaia di persone senza la mascherina o il piú delle volte con la mascherina sotto il naso si muovevano como una massa silenziosa, spingendosi, parlando a voce alta, senza badare alla continua possibilitá di contagio. Non vi sono scuse per queste situazioni: l’irresponsabilitá degli uni é la causa del male di tutti. Inoltre é proprio questa irresponsabilitá che permette a molti urlare la necessitá di un lockdown totale, senza capire che questa misura estrema sará causa di una nuova ondata di disoccupati.

Mentre scrivo queste riflessioni, ascolto alla radio la psicologa uruguaiana Natalia Trenchi, che mi fa capire alcune cose, quando parla della “viveza criolla”, espressione che nella immaginazione popolare definisce la persona .- con senso positivo - chi ha l’abilitá di raggirare e ingannare il prossimo, senza trarne danno. Burlare le regole con eleganza e misura puó essere giudicata una virtú, ma - ammonisce la psicologa - l'attuale situazione non si risolve con scherzetti e burle. Per uscire da questa situazione solo é valido agire con sforzo, rinunce e sacrificio sostenuto. In tempi di COVID dobbiamo insegnare ai nostri figli, che non siamo speciali e che le soluzioni non vengono dal cielo. Lo scorso anno in un modo o nell'altro ci proteggevamo dal coronavirus, anche se inventavamo teorie che avrebbero spiegato il fatto: il vaccino della tubercolosi, il vento che veniva dalla costa, etc.

Oggi vediamo - conclude la psicóloga - che l’unica ragione é che lo scorso anno si proteggevamo molto l’un con l’altro. Senza misteri e senza magie”. Oggi la scarsa responsabilitá collettiva mostra che la “viveza criolla” ci sta spingendo verso situazioni, sulle quali si perde il controllo. Il risultato é che - senza un ritorno ad una presa di coscienza responsabile - perdiamo tutti, anche coloro che credevano di vivere in una dimensione parallela.

JUAN RASO