DI STEFANO GHIONNI
Beati quelli che, per esempio, hanno vissuto il calcio negli anni Settanta e Ottanta. Quando quello del "pallone" era un vero e proprio rito, con le partite solo la domenica e i match di Coppa il mercoledì. Quando ci si riuniva attorno alla radio per ascoltare Ameri e Provenzale e quel… "clamoroso al Cibali" di Sandro Ciotti.
Quando c'era l'appuntamento alle ore 18 con "Novantesimo minuto" su Rai1 e sulla seconda rete, se andava bene, si poteva assistere (ovviamente in differita) al secondo tempo di una gara. Era pura poesia. Esisteva la Coppa dei Campioni ed a questa competizione vi accedeva solo la vincente del rispettivo campionato.
C'era la Coppa Uefa che era davvero tosta, anche più della stessa coppa dalle "grandi orecchie", perché vi partecipavano almeno 2 grandi squadre di grande caratura per ogni nazione (dalla seconda classificata in giù). E poi c'era la Coppa delle Coppe, destinata alle vincenti delle Coppe nazionali (la Coppa Italia per il BelPaese, tanto per intenderci).
Era un football vero, ancora senza Var, quarti arbitri e telecamere dappertutto, dove i campioni dell'epoca venivano letteralmente martoriati dai difensori, proprio perché il tutto era meno mediatico. Poi arrivò il tempo della Champions League che portò a un depotenziamento della Coppa Uefa e alla fine della Coppa delle Coppe, quest'ultima, completamente cancellata. È già quello non fu visto di buon occhio perché il ragionamento era ed è tutt'ora chiaro: perché nella "Lega dei Campioni", dove possono partecipare più squadre per ogni singola lega nazionale, possono competere club che magari non sono state campioni del proprio torneo?
Insomma, perché la seconda, la terza e la quarta classificata possono esserci? Una questione logica. Ovviamente, la nascita di quella nuova formula era dettata da mere ragioni economiche. Come avide sono quelle che vogliono portare, oggi, al varo della SuperLega (o "Super League" come l'hanno chiamata i fondatori). Ma con una differenza. Almeno in Champions tutte le squadre hanno la possibilità di andarci (sulla carta), qui no, perché in pratica i 12 club fondatori (cui se ne aggiungeranno altri 3 più 5 che saranno invitati di anno in anno) hanno il posto garantito. Davvero il trionfo della mediocrità e del "ti piace vincere facile".
Per un tifoso della Beneamata di Milano, non crediamo siano interessanti Inter-Bayern, Inter-Real Madrid e Inter-Manchester City senza le trasferte a Praga, a Varsavia, oppure a Benevento in macchina in 24 ore andata e ritorno. Il calcio non è quello della SuperLega, ma è quello del popolo. La SuperLega rappresenta una deriva settaria e classista di questo sport, che non può essere tolto alle passioni di chi lo ama e lo segue. Il calcio è tante storie, di riscatto, di vittorie inpensabili e sconfitte inaspettate. Di talenti cresciuti in campetti di provincia e poi diventati immortali. Renderlo elitario, un affare di pochi ricchissimi club, è inaccettabile. Sarà forse contento il presidente della Juve Andrea Agnelli, una delle menti della SuperLega: con i soldi di questa nuova formula potrebbe ovviare ai tanti danni economici che ha portato nel corso della sua gestione del club bianconero. Una conduzione disastrosa, tanto è vero che la società torinese ha milioni e milioni di debiti che, guarda caso, potrebbero rientrare con una spartizione tra questi oramai famosi 12-15 club importanti. Che saranno anche blasonati, ma hanno perso davvero la dignità e la faccia. E sulla faccia ci fermiamo qui…