Chi, con un po’ di malizia, volesse attribuire significati particolari al linguaggio del corpo o alle parole di Mario Draghi, potrebbe leggervi già una certa postura e solennità quirinalizia, anche perché il confronto con i predecessori fa risaltare un marcata cultura repubblicana e un altrettanto profondo spirito istituzionale. È tipico di un presidente della Repubblica toccare, come atto di omaggio alla memoria, la corona dei caduti a Bergamo o un non rituale discorso il giorno della Liberazione, ispirato ai valori costituzionali. E in fondo, il suo arrivo a palazzo Chigi è stato visto come una tappa di un destino segnato, proprio di chi, dopo aver messo in salvo il paese, ne diventa il suo garante supremo. La sensazione però è che, in corso d’opera, i presupposti si siano scontrati con delle difficoltà oggettive, superiori alle previsioni – i ritardi della campagna vaccinale, l’emergenza economica, eccetera eccetera – e che il premier si sia dovuto arrotolare le maniche in una sala macchine difficile da lasciare, almeno finché non sarà in sicurezza il paese.

Proprio nella presentazione del Recovery alle Camere questi due aspetti, il respiro quirinalizio e la manica arrotolata, coesistono nella misura in cui si è fatto “garante” agli occhi dell’Europa dell’approvazione del piano. La cui complessità e i cui step di attuazione rendono complicato che si possa liberare per il febbraio del 2022, quando ci sarà da scegliere il prossimo inquilino del Colle. Per allora saranno ancora da scrivere i decreti attuativi delle riforme presentate di qui a dicembre in Parlamento. E, come si dice in gergo, proprio la messa a terra dei progetti rende difficile la rinuncia alla continuità di governo, di qui alla fine della legislatura. I frequentatori del Palazzo sanno che l’elezione del presidente della Repubblica è un “Grande Gioco” che inizia molto prima, influenzando e plasmando le trame della politica, attorno all’obiettivo, e dunque alle ambizioni dei singoli e ai disegni dei partiti.

Finora la vulgata, complice anche una certa pigrizia dovuta all’evocazione del precedente Napolitano, ha dato per scontato ciò che scontato non è, anzi. E cioè una rielezione dell’attuale presidente per una durata limitata, tale da consentire a Draghi di completare l’opera di governo e poi ascendere al Quirinale. Poiché non c’è motivo di dubitare che sia sincera e non tattica la fermezza con cui più volte Mattarella ha negato l’eventualità, con forza uguale e contraria a quella utilizzata dai suoi consiglieri a convincerlo al “sacrificio”, il combinato disposto dei due fattori – la sala macchine di Draghi e il rifiuto dell’attuale capo dello Stato – ha dato il la al Grande Gioco. Nella sua odierna newsletter, Matteo Renzi, parlando di coprifuoco fa capire quale sia la manovra in atto, quantomeno nelle intenzioni: “Regalare questa battaglia a Salvini, a mio giudizio, è un errore politico di quelle forze di maggioranza che, sognando, immaginano un Papeete 2. Pensano, cioè, che - provocandolo sul coprifuoco - Salvini cada nel tranello e reagisca d’impulso, uscendo dalla maggioranza”.

Insomma, la famosa maggioranza Ursula che sarebbe, al tempo stesso, nell’idea dei cardinali democratici non solo un’ipotesi di governo, ma anche il conclave per eleggere il proprio Papa, casella che il centrosinistra è riuscita a mantenere nell’ultimo trentennio e che, con buone probabilità, sarebbe difficile da mantenere nel prossimo Parlamento, considerati i rapporti di forza del paese. Chissà se dietro l’indisponibilità di Mattarella al bis c’è anche questo ragionamento che ai piani alti del Nazareno hanno ben presente. E dunque, perché mai, se non per provocare Salvini sperando in un suo colpo di testa, il Pd propone proprio ora che è al governo con Salvini tutta una serie di proposte di legge, dallo ius soli al voto ai sedicenni alla legge Zan che non ha approvato né quando governava col docile Alfano né col governo giallorosso? Per lo stesso motivo per cui Letta, il giorno prima del processo di Salvini ha indossato la felpa di Open Arms, gesto che è quasi un auspicio di condanna.

Il teorico di questo schema, assecondato anche da Giuseppe Conte, è Dario Franceschini le cui antiche ambizioni quirinalizie sono note, ma intercetta un umore diffuso perché si sa, nel Pd, non scarseggiano gli aspiranti candidati al Colle. È stato notato, ad esempio, come tutta la segreteria di Enrico Letta, sia all’insegna del revival prodiano, accompagnato da un rinnovato protagonismo, sempre sull’asse Pd-Cinque stelle, del Professore anch’egli impegnato nel provocare Salvini come “il nuovo Bertinotti”. Stare al governo pensando al Colle è operazione che logora il governo e, come effetto collaterale forse previsto, anche chi lo guida. Non a caso Draghi, nel corso delle consultazioni con i partiti, ha invitato, e l’invito è rimasto inascoltato, a mettere da parte i tempi più divisivi, non contemplando cambi di maggioranza in corso d’opera. Chissà. I numeri suggeriscono grande prudenza perché in questo Parlamento è complicato eleggere un capo dello Stato senza il centrodestra. Quasi impossibile legare all’elezione l’ipotesi di uno scioglimento per andare a votare: l’istinto all’autoconservazione è più forte di ogni candidato.

ALESSANDRO DE ANGELIS