DI JAMES HANSEN

L’ultimo decennio di martellante propaganda ed eclatanti gesti politici a favore delle energie rinnovabili ha ottenuto molto poco a livello globale. Dieci anni fa i carburanti fossili— petroliferi e carbone—soddisfacevano poco più dell’80 percento del fabbisogno energetico mondiale.

Dopo due lustri di intenso sviluppo delle fonti alternative, soprattutto solare e eolica, la quota/consumo di energia fossile nel mondo è calata dall’80,3% del 2009 all’80,2% nel 2019. Sì, di un decimo di un punto percentuale secondo il “Renewables 2021, Global Status Report” di REN21, un think tank finanziato da Onu, Banca Mondiale, Commissione Europea, Usa e altri governi, nonché da Greenpeace e WWF. L’Executive Director di REN21, Rana Adib, ha spiegato: “Ci accorgiamo ora dell’amara realtà, le promesse climatiche fatte negli ultimi dieci anni sono state perlopiù parole a vuoto. La quota di carburanti fossili nel consumo di energia in pratica non si è spostata di una virgola”.

A leggere i media, l’adozione delle energie “pulite” sembrava una marcia trionfale. Eppure, a vedere i numeri, non si direbbe. Non c’entra la malafede, è che l’attenzione è puntata sulle realtà vicine. Un esperto osserva: “Gli analisti tendono a trascurare il fatto che non è, poniamo, la Svezia ad esprimere le importanti tendenze in campo energetico, è l’Asia”. Il caso della Cina è emblematico. L’anno scorso il Paese, il più grande mercato per le rinnovabili, ha messo in funzione impianti a energia eolica per 52 gigawatt—un record mondiale assoluto. Nello stesso periodo però ha dato il via alla costruzione di un numero di impianti di generazione a carbone superiore rispetto a quelli rimossi dal servizio in tutto il resto del mondo. Il risultato netto globale è negativo.

Non deve sorprendere che paesi relativamente poveri con una base industriale ancora perlopiù “carbonifera” come la Cina, l’India, la Russia o la Polonia, mettano davanti a tutto la crescita economica —costi quel che costi in termini ecologici—se non altro per garantire la pace sociale e la stabilità politica. Al “global warming” ci penseranno poi, quando potranno permetterselo.

Forse stiamo dimenticando che l’Occidente non è più l’ombelico del mondo. Un caso di questi giorni riguarda l’annuncio del “Fit for 55” dell’Unione Europea. L’Ue intenderebbe imporre unilateralmente una “carbon tax” sulle importazioni dai paesi che non si allineano alla regolamentazione europea in fatto di purezza ecologica. All’inizio, si sperava di agire in concerto con altri grandi blocchi economici, ma l’accordo non è stato trovato: “forse più in là” è stata in sostanza la reazione americana.

L’annuncio, una sorta di “ghe pensi mi” di Bruxelles, ha provocato sconcerto e una certa ilarità all’estero. Una parte del commento internazionale ha citato la versione anglosassone, più blanda, di un modo di dire italiano riguardo al marito che si “evira” per fare un dispetto alla moglie. L’autorevole editorialista economico del Telegraph inglese, Ambrose Evans-Pritchard, ha scritto: “L’obbiettivo dell’Ue è ammirevole, ma tenta di imporre le sue regolamentazioni interne e i suoi metodi sul mondo intero... come se fosse la potenza globale egemonica. Non è l’hegemon”.