Le rivolte dei no vax che stanno occupando la scena nel paese, in un’estate in cui la nuova escalation del virus non sembra scalfire la frenesia balneare che porta tutti a mescolarsi indiscriminatamente, hanno almeno il merito di non permettere che il tema della pandemia rimanga soffocato da apparenti contesi scientifici o tecnici. E soprattutto rendono visibile l’afonia di una parte consistente del quadro politico nazionale, la sinistra, del tutto amorfa e relegata nelle pieghe delle reazioni del governo alle intemperanze della destra.

I nodi da sciogliere sono almeno due: innanzitutto va riconosciuta l’endemicità del fenomeno infettivo, che non può più essere considerato una congiuntura drammatica ma momentanea; dall’altro lato, dietro al paravento dei vaccini, sta affiorando con forza la base sociale e culturale del trumpismo al ragù, che prolunga la resistenza dei no vax in un pensiero che rovescia la tradizionale opzione statalista della destra: nel dualismo fra individuo e stato, la nuova destra italiana punta a un sovversivismo dei ceti medi avrebbe detto Gramsci, contestando ogni spazio pubblico nella democrazia plebiscitaria.

La pandemia che stiamo vivendo, lo scrive anche Andrea Crisanti nel libro che abbiamo scritto proprio alle primissime avvisaglie di quella che sembrava l’ennesima fase di addormentamento del virus, Caccia al Virus (Donzelli) “non è una crisi che possa al suo termine ripristinare tempi e modi della nostra vita ma una transizione che si sta accompagnando in un mondo che non conosciamo”. La pandemia è in effetti una transizione, un fenomeno che sta mutando connotati e dinamiche delle nostre relazioni sociali, rendendo permanenti quelle che a oggi ci sembrano solo emergenze. La democrazia, così come l’abbiamo conosciuta in questi decenni, già non c’è più. Il sistema delegato delle rappresentanze politiche è ormai in mora, e si contrappongono al momento due modelli di leadership: un centro tecnocratico senza radicamento sociale, un vertice plebiscitario senza capacità di governo. Non pervenuta l’opzione di una sinistra che risponde alle impennate della destra solo anagrammando i decreti di Draghi.

La partita che si sta giocando oggi non è molto dissimile da quella che andò in scena esattamente un secolo fa, in quel decennio degli anni ’20 del 900 che Wolfram Einlenberger definì con il suo testo limpidissimo Il tempo degli Stregoni (Feltrinelli ), che descrive la contesa fra i grandi filosofi del tempo (Heidegger, Casirer, Wittgenstein e Benjamin) per fissare i valori del crepuscolare primato europeo. Il nodo allora, come oggi, era la natura del potere, le forze che sono abilitate a esercitarlo, gli interessi e i valori che lo debbono giustificare. E, allora come oggi, a gonfiare le fila della reazione furono masse disperate che come scrisse Hanna Arendt nel suo saggio sui totalitarismi scrivendo “fu il momento in cui le plebi irruppero nella storia anche a costo della propria distruzione“. Le piazze dei no vax ripropongono quella disperazione che percepisce un dominio che non lascia spazio a ceti periferici e reagiscono seguendo il piffero di una destra senza scrupoli, “anche a costo della propria distruzione“.

Marco Revelli coglie da sinistra questa ambiguità quando scrive su Il Manifesto: ”quelle piazze non sono riducibili solo a quell’anima nera, sono molto più eterogenee, trasversali, articolate, coacervo di sentimenti contraddittori, e per questo tanto più preoccupanti, perché parlano di una «crisi della ragione» più vasta. Di un disorientamento più diffuso, se in tanti sentono di doversi mobilitare per danneggiare sé e gli altri, credendo di difendere giustizia e libertà”. Non basta avere ragione, dice Revelli. Non è sufficiente saper usare i numeri. Paolo Giordano abilissimo a trasformare i numeri in narrazione all’indomani di quelle manifestazioni contro i vaccini, sul Corriere della sera, reclama “un minimo teorico” per discutere della materia.

Bisogna sapere per contestare. Un atteggiamento che sembra fatto apposta per riempire quelle piazze. “Voltare le spalle alle forze distruttive del secolo non serve a nulla“ ammoniva la Arendt nella sua anatomia del nazismo. Bisogna guardarli in faccia e cogliere quel passaggio emotivo e di interessi che vede cospicue aree popolari muoversi in una direzione opposta alla democrazia. Per fare questo basta l’aristocrazia delle competenze, come chiede Giordano? Basta la statistica a spostare il senso comune di quelle plebi? È un puro calcolo quello che può convincere segmenti sociali intermedi, schiacciati fra un globalismo economico e una lontananza del potere ad accettare vincoli e costrizioni?

Non toccherebbe alla sinistra rispondere a queste domande, individuando quello che oggi, è la vera causa dello spossessamento della democrazia, come l’invadenza dei monopoli del calcolo? In questo buco nero del dominio digitale, che deforma le straordinarie opportunità del sistema a rete in una nuova forma di controllo e sorveglianza individuale, la potenza di calcolo ha creato una inedita dicotomia fra libertà e conoscenza, come spiega Shoshanna Zuboff nel Capitalismo della sorveglianza ( Luiss, Roma 2018) “la conoscenza che oggi prende il posto della libertà ha dei proprietari. La conoscenza è loro, mentre la libertà la perdiamo noi“. Regalare alla spregiudicatezza della destra, che identifica vaccini e algoritmi, questo spazio sarebbe davvero terribile.

MICHELE MEZZA