di Toni Ricciardi

Dal 2001, l’8 agosto si celebra la “Giornata del sacrificio italiano nel mondo”. Esattamente 65 anni fa, al Bois du Cazier un devastante incendio in uno dei pozzi principali di Marcinelle tolse la vita a 262 minatori, di cui 136 italiani.

Oltre agli italiani – che per tutto il Novecento hanno amaramente contribuito con il maggior numero di vittime in tante delle tragedie del fordismo in giro per il mondo (Monongah, Dawson, Izourt, Marcinelle e Mattmark) – perirono 95 belgi e persone di 12 nazionalità diverse. Quest’ultimo dato testimonia come, a 975 o 1035 metri sottoterra, la morte non chiede la cittadinanza a nessuno, ma prende ciò che la superficialità, la non conoscenza umana e allo stesso tempo il fato mettono a disposizione. A dire il vero, l’incidente dell’8 agosto non fu né il primo né l’ultimo di una lunga mattanza che ha caratterizzato uno dei lavori più duri e più mitizzati dell’epoca moderna (dal Germinal di Émile Zola, fino ai minatori cileni che divennero testimonial dello spot per i mondiali in Brasile del 2014).

Stando alle cifre ufficiali, pubblicate nel 1952, gli incidenti nelle miniere belghe avevano raggiunto quota 127.392, tra fondo e superficie, con un bilancio finale di 178 morti e 1457 inabilità permanenti. Nel 1952, i morti furono 43 e gli incidenti, rispetto all’anno precedente, 39.553. Dal 1841 al 1965 furono circa 170 all’anno – nel primo ventennio quasi 300 –, per un totale complessivo di oltre 21.000 in poco più di un secolo. Nel secondo dopoguerra, dal 1946 al 1965, in media, si sono registrate 3400 vittime.

Tra le cause principali, ci furono le frane e l’asfissia legata a un’eccessiva presenza di grisù. Il maggior numero di vittime e incidenti si registrò nei bacini meridionali, di antica produzione, prevalentemente dislocati nella Vallonia, come Marcinelle. Il paradosso di questa storia che ha trasformato la tragedia del Bois du Cazier in pagina indelebile della storia d’Italia ed europea, è legata al fatto che più volte nel corso dei primi decenni del XX secolo si ragionò sulla possibile chiusura del pozzo, soprattutto perché vecchio e poco sicuro. Tuttavia, ogni volta, prima la guerra e poi soprattutto l’arrivo di manodopera a basso costo (italiana) consentì di sfruttare ancora per molti decenni il plesso.

È bene ricordarlo, la presenza italiana in Belgio, come nel resto dell’Europa continentale, ha radici profonde che risalgono all’epoca medievale, ma è solo dall’Ottocento che si registrò una presenza in termini di manodopera. Utilizzata, come in Francia e Svizzera, per le grandi opere infrastrutturali tra il XIX e il XX secolo, nel 1910 la comunità italiana contava meno di 5000 presenze nel regno belga, per poi crescere cospicuamente nel primo dopoguerra superando le 30.000 unità.

Nel periodo tra le due guerre mondiali gli italiani arrivarono in Belgio per lavorare nelle miniere, che già negli anni Venti iniziavano a registrare una crescente penuria di manodopera locale. Alla vigilia dello scoppio del secondo conflitto mondiale, nel 1938, erano impiegati quasi 400.000 stranieri e la manodopera italiana rappresentava, con le sue oltre 39.000 unità, il 12% dell’intero contingente. Gli stranieri e, soprattutto, gli italiani lavoravano in fondo alle miniere, settore che agli inizi del XX secolo, oltre agli storici bacini carboniferi del Sud del paese – nella Vallonia francofona, la cui produzione iniziava progressivamente a essere meno redditizia per l’arretratezza degli impianti –, vide l’inizio dello sfruttamento, nella regione fiamminga, dei nuovi bacini nord-orientali e del Limburgo.

Tornando all’8 agosto, in questo giorno appunto celebriamo il sacrificio del duro lavoro, di quel lavoro che ancora a distanza di 65 anni continua a mietere vittime in uno dei paesi più avanzati del mondo, l’Italia. A Marcinelle morirono per l’incuria, per le mancate norme di sicurezza, insomma per le stesse ragioni per le quali ancora oggi in Italia si muore di lavoro. Tuttavia, Marcinelle e con essa l’emigrazione in Belgio ci consegnano un’altra pagina della storia repubblicana che ancora oggi si fatica ad analizzare per quella che realmente è stata.

Dieci anni prima, il 23 giugno del 1946 (75 anni fa), la neonata Repubblica di un paese ancora occupato, dove venivano utilizzate le Am-Lire, e che era alle prese con il suo futuro geopolitico – il Trattato di Pace verrà siglato solo nel 1947 –, prima di aprire i lavori dell’Assemblea Costituente, siglò il famoso accordo di scambio “minatore-carbone”. L’Italia si impegnava ad inviare 50.000 minatori e in cambio avrebbe dovuto ricevere – in realtà il carbone non arrivò mai – 200 kg a testa di carbone, che all’epoca rappresentava ancora l’elemento chiave della modernità.

Come sappiamo, l’art. 1 della nostra Carta Costituzionale recita che la Repubblica è fondata sul lavoro. In realtà questa affermazione è un falso storico, o quanto meno, non tenne conto della verità fattuale del tempo, ovvero, che la Repubblica fu fondata sull’emigrazione.

Oggi il Bois du Cazier è patrimonio dell’Unesco, il luogo di questa immane tragedia è divenuto anche grazie alla tenacia dei sopravvissuti e dei loro familiari, uno dei più importanti plessi celebrativi del lavoro italiano nel mondo. D’altronde, quando si diventa patrimonio dell’Unesco, si diventa patrimonio di tutte e tutti, a futura memoria. Quest’ultima assolve pienamente al suo compito nella misura in cui ci obbliga a ricordare le nostra fondamenta costitutive e, allo stesso tempo, ci pone dinnanzi all’obbligo di provvedere in maniera risoluta affinché non si ripetano ancora, e sono fino troppe, le morti bianche che stanno caratterizzando questa fase particolare della nostra vita.