di

Lucio Leante

Molti non sono pienamente coscienti del fatto che la diffusa tesi secondo cui l’Occidente, con il suo colonialismo imperialista ed il suo “neo-colonialismo”delle multinazionali, sarebbe ancor oggi “la causa” di tutti i persistenti mali dei Paesi  poveri africani ed asiatici (e quindi anche dei flussi migratori attuali) è una balla colossale che trova origine nell’ideologia para-comunista, fintamente umanitaria e in realtà anti-occidentale del terzomondismo. Il terzomondismo sembrava essere morto come il marxismo da cui è nato e di cui costituiva un’eresia ed un surrogato. E, invece, una delle ideologie più perniciose per gli stessi Paesi  del cosiddetto “terzo mondo”, pur sconfessata e smentita dalle dure repliche dei fatti e della storia, continua a vivere sotto altre sembianze e altre denominazioni. Oggi continua a serpeggiare quasi soltanto in Occidente mentre nel “terzo mondo” le nuove generazioni di intellettuali, economisti, sociologi e antropologi lo considerano obsoleto e, anzi una delle principali cause ideologiche della persistente arretratezza dei loro Paesi  e persino una forma di vero neocolonialismo mascherato dietro gli “aiuti esteri”.Rifugio dei post-comunisti (e cattolici di sinistra) - In Occidente è divenuto il rifugio – spesso inconfessato e travestito di aspirazioni alla giustizia universalista ed egualitaria – di molti ex-post-comunisti e di “cattolici di sinistra”. Per i post-ex-comunisti il terzomondismo ha sempre rappresentato un’eresia del marxismo ed un ripiego ideologico e teorico finalizzato a salvare la prospettiva rivoluzionaria ad opera non più – come prevedeva Karl Marx – del proletariato industriale dei Paesi  avanzati (già da Lenin considerato nel suo testo “L’Imperialismo fase suprema del capitalismo” – almeno nelle sue “aristocrazie” – “integrato” nel sistema capitalistico-borghese perché “corrotto dai corrotti riformisti”), ma delle masse povere e diseredate dei contadini dei Paesi  arretrati, per di più considerate portatrici di una purezza e innocenza primigenia, che prefiguravano comunque un diverso tipo di “uomo nuovo” dal cuore antico, frugale, austero e anti-consumista. Ai contadini che Marx considerava alla stregua di “sacchi di patate” e che Lenin e Stalin non nascondevano di volere sterminare “come classe” (nobile progetto poi in gran parte realizzato) i terzomondisti attribuivano invece nientemeno che la funzione di motore di massa per la rivoluzione mondiale. Marx aveva previsto un socialismo ricco ed i terzomondisti ne proponevano uno povero e anzi misero. Una bella giravolta, che però consentiva loro di mantenere viva la prospettiva “rivoluzionaria” e cioè quella della distruzione dell’Occidente e della sua civiltà cristiana e liberale.

Per i cattolici di sinistra il terzomondismo riproduce soprattutto temi pauperisti, sempre risorgenti come un fiume carsico non solo in vari movimenti ascetici e in qualche misura gnostici (e pelagiani) non tutti e non sempre dichiarati eretici, come i catari, i valdesi, i poveri di Lione, gli umiliati, gli apostolici, le beghine e soprattutto gli ordini mendicanti tra cui i francescani. Nella storia stessa del cristianesimo ortodosso la povertà programmatica è un tema ricorrente. Una vena pauperista e terzomondista anti-occidentale è certamente presente anche nell’attuale papa Bergoglio, che non a caso ha scelto il nome di Francesco. Non è forse scritto che “è più facile che un cammello passi per la cruna dell’ago che un ricco entri nel regno di Dio”? (Matteo 19–23–30).

Il pauperismo è insomma il cemento ideologico-religioso che tiene insieme i terzomondisti: gli ex-post comunisti e i cattolici umanitari. Particolare curioso è che entrambi da un lato si stracciano le vesti per la povertà del “terzo mondo” (accusandone l’Occidente), ma dall’altro entrambi esaltano le virtù salvifiche della povertà. I comunisti come strada per il paradiso terrestre comunista popolato da quel particolare “uomo nuovo” molto simile al mitico “buon selvaggio” russoviano. I cattolici la esaltano come strada per la salvezza ultraterrena nel regno di Dio.
Istanze nettamente terzomondiste (e pauperiste) si ritrovano poi ai nostri tempi mascherate nell’ideologia multiculturalista, nella “cancel culture”, nel movimento “Black lives matter”, nelle aspirazioni alla cosiddetta “decrescita felice”, nell’atteggiamento pregiudizialmente filopalestinese e anti-israeliano di molti e in generale in tutte le ideologie anti-occidentali contemporanee. Del terzomondismo di un tempo esse sono le ultima variante e incarnazione. In ogni caso il terzomondismo può considerarsi oggi una teoria ideologica smentita dai fatti.

Le dure repliche dei fatti - Gli europei che arrivarono in Africa nel XIX secolo non trovarono un Eden che poi avrebbero distrutto, ma carestie, epidemie, tratte di schiavi (anche tra indigeni) malattie endemiche e guerre tribali. Il colonialismo fu un fenomeno complesso che qui sarebbe impossibile analizzare perché di colonialismi ve ne furono diversi e vari. Comunque secondo la maggior parte degli storici non può essere ridotto alla categoria ottocentesca dello sfruttamento e della rapina come fanno semplicisticamente i terzomondisti. Certo, di crimini i colonialisti europei ne hanno commessi: dalla repressione inglese del grande ammutinamento indiano del 1857, ai massacri nel Congo belga, al genocidio dei popoli Herero in Namibia, allo sterminio dei ribelli cirenaici nella Libia occupata dagli italiani. Ma tali fatti, seppur tragici e ripugnanti, non confermano affatto la semplicistica versione terzomondista sull’intricato rapporto tra colonialismo e sviluppo mancato. Su questo punto la vera “colpa” dei colonialisti è stata di non avere creato una vera classe dirigente locale responsabile, una vera borghesia grande e piccola ed un’economia di mercato.

In ogni caso l’era coloniale è terminata oltre 60 anni fa, tra la fine della Seconda guerra mondiale e la fallita spedizione anglo-francese a Suez nel 1956. “Il bilancio deve cominciare da allora, non da cent’anni prima. E l’esame di coscienza devono farlo anzitutto i ‘decolonizzati’, non i colonizzatori” – ha scritto tra gli altri Sergio Romano. E la sua opinione è ampiamente condivisa oggi da molti giovani intellettuali africani ed asiatici stanchi della vulgata terzomondista finalizzata a esportare tutte le “colpe” al “perverso Occidente”.

Subito dopo la fine del colonialismo, molti leader dell’indipendenza contro il colonialismo divennero capi di Stato, adottando politiche socialiste (e tribaliste), sotto influenza sovietica, per contrapporsi all’ “imperialismo” occidentale.
Il Ghana del leader storico Nkrumah, filo-socialista e nazionalista, la Guinea del filosovietico Sékou Touré, al potere per oltre un ventennio, fino allo Zimbabwe di Robert Mugabe, tutti dominati da leader terzomondisti, panafricani ed anti-occidentali, non sono stati soggetti per lunghi periodi alle politiche neocoloniali. Tutti quei Presidenti hanno nazionalizzato le compagnie straniere, cacciato via le deprecate multinazionali. Anzi Mugabe cacciò via nel 2000 tutti gli europei bianchi dallo Zimbabwe e spartì delle loro terre tra gli autoctoni (anche se poi nel 2020 il nuovo governo dello Zimbabwe ha dovuto restituire le terre agli ex coloni risarcendoli persino). Eppure i loro Paesi  sono in condizioni non meno tragiche di altri.

Il fallimento del socialismo terzomondista - Quelle loro politiche socialiste erano estranee alla cultura locale e furono fallimentari per le economie locali come lo furono in tutti i Paesi  socialisti del mondo che hanno subito lunghi periodi di scarsezza e di illibertà. Il risultato è che da tempo l’Africa è costretta ad importare prodotti alimentari per decine di miliardi di dollari (secondo recenti stime siamo oggi attorno ai 100 miliardi annui) dall’estero, mentre nel deprecato periodo coloniale era un esportatrice netta di cibo. Lo Zimbabwe quando era Rhodesia e la Repubblica Democratica del Congo quando era Congo belga esportavano cibo, ma oggi le loro popolazioni non riescono a sfamarsi. La stessa Tanzania e la Sierra Leone erano un tempo auto-sufficienti.

Questa ed altre circostanze, come le continue guerre politico-tribali, la stagnazione sociale, i faraonici arricchimenti dei dittatori e dei loro clan e tribù dominanti a spese delle popolazioni, la corruzione dilagante, le epidemie ricorrenti, la mancanza infrastrutture scolastiche ed ospedaliere, hanno indotto molti giovani intellettuali africani ad abbandonare l’ideologia terzomondista ed anzi ad accusare i terzomondisti occidentali di essere la vera causa ideologica dei disastri dei loro Paesi . Mentre un tempo, l’intellighenzia, influenzata e blandita dai terzomondisti occidentali, seguiva i leader africani filo-sovietici che accusavano la colonizzazione europea per tutti i mali dell’Africa, oggi una buona parte della nuova generazione di intellettuali incolpa soprattutto i dittatori locali di avere assorbito dall’Urss e dai terzomondisti occidentali il dogma del collettivismo comunista e la convinzione che il libero mercato e o stato di diritto fossero “roba da bianchi” anche se non soprattutto perché quell’ideologia garantiva loro ed alle loro tribù e clan un potere totalitario immenso e incontrollato. “Un grande ostacolo alla crescita economica dell’Africa è stata la tendenza di incolpare le forze esterne per i nostri fallimenti… il progresso sarebbe potuto arrivare se avessimo provato a rimuovere la polvere dagli occhi” – ha scritto l’intellettuale ghanese Said Akobeng Eric, in una lettera all’editore di Free Press.

La nuova intellighenzia africana - La parte più sveglia della nuova intellighenzia africana e asiatica nutre ormai ben pochi dubbi sull’efficacia del libero mercato e dello stato liberale di diritto nell’arricchire e migliorare l’economia dei Paesi  che li adottano: è inequivocabile la forte relazione tra libertà economica, civile e politica e i maggiori indicatori di ricchezza e benessere. Lo dimostrano i casi della Cina e del Vietnam (e di altri Paesi ) che sistematicamente hanno cominciato a crescere non certo da quando sono divenuti indipendenti dal dominio coloniale, ma da quando hanno scelto il libero mercato e hanno abbandonato la ricetta collettivista e statalista. Anche in Africa il Rwanda, il Botswana e l’Etiopia stanno cominciando a vedere i primi risultati positivi delle incipienti liberalizzazioni. Per converso tutti i Paesi  che si sono attardati e hanno conservato la vecchia ricetta statalista e collettivista come Cuba, il Laos e vari Paesi  africani languono nella miseria e stagnano nel sottosviluppo.

Anzi l’economista ghaniano George Ayittey, pur non negando le responsabilità e le malefatte dei colonialisti, sostiene che la vera tragedia per lo sviluppo dell’Africa sia nata non con il colonialismo, ma con l’indipendenza (v. George B. N. Ayittey, Defeating Dictators: Fighting Tyranny in Africa and Around the World, Ed. St. Martin’s Griffin, 2012, Pp. 396–406).

Secondo vari studiosi, sia occidentali, sia africani il vero neocolonialismo oggi non è quello delle multinazionali, ma quello dagli aiuti esteri degli stati occidentali, delle organizzazioni internazionali, dei progetti delle varie agenzie di cooperazione e delle Ong, unificati da una stessa perniciosa ideologia: quella del terzomondismo sia pure in versione non più rivoluzionaria, ma gradualista. Sono gli “aiuti” internazionali che, infatti, hanno perpetuato le dittature collettiviste, causa principale dei mali dell’Africa. (per una più completa documentazione si veda Anna Mahiar Barducci, Aiutiamoli a casa loro? Lo stiamo già facendo, ma male, Fondazione Einaudi, 26 aprile 2020). Lo stesso economista ghaniano Ayittey ha scritto: “Abbiamo rimosso i colonialisti bianchi e li abbiamo rimpiazzati con neo-colonialisti neri” mantenuti al potere ed arricchiti, insieme con i loro clan, tribù e greppie di potere proprio dagli aiuti internazionali e dalla loro ideologia terzomondista (v. therisingcontinent.com 25 Ottobre 2011).

Il vero neo-colonialismo: gli aiuti esteri - Il giornalista ugandese Andrew Mwenda, definisce da vari anni gli aiuti come antitetici alla crescita, perché creano gli incentivi sbagliati e distorcono la relazione tra Stato e cittadino. A causa degli aiuti internazionali, il governo non ha più alcun interesse a dialogare con la popolazione e a cercare consensi, perché sostenuto economicamente dall’esterno (v. Andrew M Mwenda: aid creates the wrong incentives for progress, theguardian.com 24 luglio, 2008.).

Sembra pertanto sempre più chiaro che anche la formula “aiutiamoli a casa loro”, che può sembrare una valida alternativa all’immigrazione incontrollata e illimitata sia solo una formula semplicistica e propagandistica destinata a non funzionare, almeno per come è impostata adesso la cooperazione internazionale. Si sta facendo sempre più forte l’idea che un Piano Marshall per l’Africa possa risollevare i Paesi  africani e frenare così l’emergenza migranti. Ne hanno parlato con enfasi sia l’allora presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, sia la cancelliera tedesca Angela Merkel. Tuttavia, sia gli aiuti internazionali, sia un eventuale Piano Marshall, promuoverebbero soltanto trasferimenti “da governo a governo”, ovvero incentiverebbero solo lo statalismo, con le sue solite dispersioni e distorsioni e non la “libera impresa”, la libertà economica ed il libero mercato. Nemmeno il supposto Piano Marshall per l’Africa sembra una soluzione. Già nel 2002 l’ex Presidente del Senegal Abdoulaye Wade, dichiarò: “Non ho mai visto Paesi  svilupparsi grazie agli aiuti… I Paesi  che si sono sviluppati come gli Stati Europei, l’America, il Giappone…hanno tutti creduto nel libero mercato. Non c’è alcun mistero. L’Africa ha preso una strada sbagliata dopo l’indipendenza”.

La economista dello Zambia, Dambisa Moyo, ha scritto nel suo famoso libro “Dead Aid” (“Aiuto morto”): “Il foreign aid sostiene i governi corrotti (africani) – fornendo loro denaro utilizzabile liberamente. Questi governi corrotti interferiscono con lo Stato di diritto, con la creazione di istituzioni civili trasparenti e con la protezione delle libertà civili”. Ed ha poi aggiunto: “In risposta all’aumento della povertà, i Paesi  donatori danno più aiuti economici, continuando così la spirale della povertà. Questo è il circolo vizioso degli aiuti. Il circolo che strozza il bisogno di investimenti, che infonde la cultura della dipendenza, e facilita la corruzione sistematica, con deleterie conseguenze per la crescita. Questo è il circolo che perpetua il sottosviluppo e garantisce il fallimento economico dei Paesi  poveri, dipendenti dal foreign aid.”.

La soluzione per la Moyo è pertanto chiara: innanzitutto cancellare gli aiuti, una proposta che ha suscitato le vivaci e terrorizzate critiche di molte Ong dirette da noti terzomondisti, che da (e su) quegli aiuti ci campano discretamente (v. D. Moyo, “Dead Aid”, Penguin, London 2009). Il discorso sull’Africa (e sul terzomondismo) dovrebbe continuare, e lo continueremo. Il fine di questo articolo era solo quello di sottolineare il fallimento e la cialtroneria dei terzomondisti, la cui vera “passion predominante” non è affatto la cura umanitaria per i popoli degli “ultimi” o “dannati della terra”, come vorrebbero fare credere. A costoro essi non hanno apportato che danni enormi e irreparabili. La loro vera passione è un’avversione pregiudiziale per l’Occidente, vissuto come colpa collettiva di tutti i mali del mondo. Un’avversione che essi hanno ereditato dal marxismo e che è anche un paradossale e patologico odio di sé.