di Federica Olivo

"I talebani hanno distrutto i nostri sogni, ora faranno lo stesso con le nostre vite. Sono già venuti a cercarmi a casa, non potevo che fuggire". Zhara è una donna soldato di 35 anni, che fino a pochi giorni fa viveva a Herat, la terza città dell'Afghanistan, per quasi 20 anni base del contingente italiano. Trentacinque anni, due figli e un compagno, ha raccontato perché ha deciso di fuggire: "Non avevo alternative. Dovevo pensare alla mia famiglia, al mio compagno, soldato come me, a un futuro che sognavo qui, per il quale mi sono messa in gioco in prima persona. E che oggi è stato cancellato". Zahra è arrivata in Italia, come altri suoi concittadini, come alcune delle calciatrici della squadra di Herat. Anche loro, arrivate in Italia grazie all'Ong Cospe, rappresentazione di ciò che i talebani vorrebbero annientare. Avevano chiesto di essere evacuate in sei, consapevoli del pericolo che correvano a rimanere in città, ma purtroppo solo in quattro ce l'hanno fatta. Altre due sono state costrette a rientrare da Kabul a Herat.

Il ponte aereo si sta esaurendo in queste ore, ma la speranza dell'ong è che riescano comunque a partire. Che si attivino altri corridoi umanitari. A fronte di alcune migliaia di persone che sono riuscite a raggiungere l'Occidente - da Herat, come da Kabul, come da altre località afghane - nella terza città del Paese però centinaia di migliaia di persone che sono rimaste. Al mezzo milione di residenti si aggiungono i profughi, che arrivano dalla periferia, dalle province. Per quanto le informazioni da Herat siano sempre meno, il ritratto che ne viene fuori è quello di una città che ha cambiato volto. Dal giorno in cui i talebani hanno ufficialmente preso il controllo, il 12 agosto, la vita di chi è rimasto ha preso un'altra piega, come spiega il Financial times, che ha raccolto le testimonianze di alcuni residenti.

"Herat oggi è una città fantasma", ha detto un giornalista raggiunto dalla testata americana. Vedere donne in strada è molto difficile: quasi tutte, per paura o per costrizione, sono rimaste a casa. Anche chi, fino a poco tempo prima, aveva un lavoro. Fanno eccezione le donne che lavorano nella sanità, ma anche loro sono controllate a vista e non possono lavorare con persone dell'altro sesso. Quanto agli uomini, sono più liberi ma, almeno quelli che si sono imbattuti negli ordini dei talebani, costretti a indossare l'abito tradizionale. I parchi sono vuoti, o quasi. A restituire una parvenza di normalità i negozi che riaprono, ma tra i cittadini resta la paura: "Quando usciamo, non sappiamo se incontreremo un talebano particolarmente rigido o in uno che non lo è", ha spiegato un fotografo al Ft. Nel primo caso, anche indossare jeans e maglietta può diventare un problema. Le scuole sono ripartire, ma le classi miste sono state bandite.

L'Università, invece, non ha ancora riaperto i battenti. I talebani, hanno raccontato dei dipendenti dell'Ateneo di Herat al sito University World News, non solo vogliono classi separate, ma pretendono che per le ragazze debbano esserci solo docenti donne. Cosa molto difficile, dato l'organico dell'Ateneo. E così le lezioni sono sospese, le facoltà chiuse. I sogni di tanti giovani afghani appesi a un filo. Chi può progetta di partire, anche se è difficile immaginare quando, come e per dove, visto che le evacuazioni sono praticamente terminate e lasciare i confini diventerà sempre più difficile. Ma la prospettiva di dover restare a lungo in un territorio controllato dagli estremisti fa paura: "Sono pronto a dare la mia vita per far andare mia moglie e i miei figli fuori dal Paese. Non voglio che i miei figli crescano sotto la bandiera dei talebani", dice un uomo che lavora in un ufficio pubblico al giornale americano.

Quello che sta succedendo a Herat è la fotografia di ciò che accade, e accadrà, in tutto l'Afghanistan? "Probabilmente sì, ma con le differenze che ci sono da territorio a territorio. I talebani stessi non sono un monolite e, per quanto si siano dati come ordine di scuderia quello di presentarsi all'esterno in maniera accettabile, sappiamo bene quale sia la loro visione del mondo. Chiaramente poi tutto dipenderà molto da come controlleranno ogni porzione di Paese. Francamente, mi sembra prematuro e un po' azzardato fare previsioni di lungo termine", dice ad Huffpost Marco De Ponte, segretario generale di ActionAid Italia. L'ong è presente in 7 province dell'Afghanistan e, proprio ieri, ha lanciato un allarme sulla crisi umanitaria che si sta sviluppando in tutto il Paese. Perché se non c'è totale certezza su quale sarà l'assetto dell'Afghanistan nei prossimi mesi o anni, la situazione attuale è drammaticamente chiara.

In questo momento ci sono decine di migliaia di persone che hanno bisogno di aiuto: "Ci sono almeno 150mila sfollati, che dalle campagne si sono mossi verso le città, Herat compresa. Ci stiamo al momento concentrando sui loro bisogni base: indumenti, cibo, kit sanitari. A ciò affiancheremo anche il supporto psicosociale, con l'obiettivo di coinvolgere 35mila persone che si sono mosse all'interno del Paese", spiega il segretario generale, che ha contatti quotidiani con gli attivisti sul campo. Nei confini afghani, così come in ogni altro territorio dove opera l'ong, lavorano sono persone del posto: "Ne abbiamo sui vari territori circa 120. Abbiamo deciso di non far operare le donne, per il momento, per la loro sicurezza", continua De Ponte. Passo dopo passo l'ong capirà come indirizzare la sua attività, seguendo gli obiettivi di sempre e affiancando a questi la gestione dell'emergenza: "Continueremo a fare il nostro lavoro - spiega ancora il segretario generale - nella consapevolezza che operare sarà più difficile, visto che le condizioni sul campo sono mutate".

De Ponte, però, ribalta la visione, tipicamente occidentale, di un cambiamento repentino, avvenuto all'improvviso, in poche settimane: "Era da un anno e mezzo che, soprattutto nelle zone rurali, i talebani stavano rientrando nei territori. Provincia per provincia. Non da un punto di vista militare certo, come è accaduto effettivamente nelle ultime settimane, ma da un punto di vista sociale. Proprio per questo motivo, per i nostri operatori del posto l'evoluzione cui abbiamo assistito negli ultimi giorni non è stata una sorpresa".