Di MARCO FERRARI

Se chiedessimo quali sono le città con più italiani al mondo, saremmo sicuri della risposta: Roma e Milano. Ma non è così. La città con più italiani sul pianeta è San Paolo. Ed è anche la città con più napoletani al mondo, seguita da Buenos Aires.

Sulle prime la città provoca un certo sgomento per gli agglomerati urbani confusi e ordinari, i grattacieli contrapposti alle favelas, l’ostentazione della ricchezza e della povertà, un profilo sterminato di palazzi su colline irregolari e paesaggi irrequieti, la sagoma di edifici elevati spesso avvolti in una nube d’inquinamento. Ma all’addentrarsi nel cuore della metropoli, ecco spuntare respiri evidenti di percorsi di vita, personali e collettivi, che hanno forgiato questo paese d’immigrazione.

Nel 1914, alla vigilia della Grande Guerra, São Paulo non era ancora la metropoli di oggi, con i suoi 27 milioni di abitanti distribuiti nella regione. A quell’epoca contava poco più di 300 mila persone, ma già la comunità italiana era la più nume- rosa e operosa. Ogni anno a Rio de Janeiro e Santos i piroscafi scaricavano migliaia di italiani. Nel solo anno di grazia 1891 su 215.239 ingressi in Brasile, 132.326 erano italiani. Dal 1887 al 1902 sbarcarono 1.129.265 italiani che andarono a sostituire gli schiavi neri delle piantagioni del caffè. Oggi si calcola che nel paese della bossa nova vivano 25-30 milioni di discendenti di immigrati italiani, il 15% della sola popolazione urbana.

Divenuto indipendente nel 1822, l’impero brasiliano decise di “sbiancare” il paese favorendo l’immigrazione dal Vecchio Continente. Una volta abolita la schiavitù con la Legge Aurea nel 1888, venne promossa l’immigrazione sussidiata degli italiani che altrimenti non avrebbero potuto pagarsi il costoso trasferimento marittimo.

L’esodo biblico degli italiani verso il Brasile fu incrementato da agenti d’immigrazione – nel 1895 in Italia erano aperte ben 33 agenzie dedite a quel traffico umano con più di sette- mila addetti distribuiti sul territorio nazionale – che offrivano passaggi gratuiti a intere famiglie in tutta la penisola, che invogliavano gli italiani a piantare le loro tende in zone di nuova espansione dove mancava manodopera preparata, popolazione di pelle bianca, gente pronta a difendere con le armi il pezzo di terra assegnato da uno Stato magnanimo. A differenza dei coloni inglesi, francesi, olandesi, figli di una gran- deur plurisecolare, i nostri talian non avevano sangue nobile da versare, non sapevano né leggere né scrivere, ma sapevano rimboccarsi le maniche, arrangiarsi, fare squadra, disboscare le foreste, affondare la zappa in zolle dure e affrontare l’aridità delle pianure. Nascevano vere e proprie catene di emigrazione con accoglienza e protezione, sino al limite e oltre il lecito, come ci ha insegnato la storia tormentata di grandi metropoli. Una vicenda oramai conservata nei cassetti di famiglia o nei musei, anche se le fotografie, le lettere, le bacheche, le valigie di cartone e le sacche da marinaio non possono certo contenere l'insieme dei sacrifici umani consumati sulle rotte degli oceani.

L’emigrazione sussidiata terminò nel marzo 1902 con il decreto Prinetti lasciando spazio ad un flusso migratorio personale e qualificato. Al di là di chi decise di tornare indietro per le difficoltà ad accettare le regole ferree e coloniali della fazenda, molti italiani si inurbano nelle aree di nuova espansione industriale come San Paolo. Anche qui come altrove gli emigrati si riunivano sulla base della loro provenienza facendo nascere quartieri come Bixiga, Barra Funda o Mooca dove ancora imperavano i dialetti e le cucine regionali, dove si pregano santi della tradizione e dove i nomi dei negozi e dei ritrovi erano tutti italiani. La scaltrezza negli affari portò al soprannome di carcamanos, cioè coloro che appoggiano la mano sulla bi- lancia per aumentare il peso delle merci da vendere. Nel 1893 un terzo della popolazione paolista era italiano. Col tempo la percentuale si abbassò di molto, ma oramai gran parte della classe media, artigianale, industriale e commerciale era originaria della penisola. Una élite che contribuì all’edificazione della città, alla costruzione di palazzi, monumenti, cimiteri, centri culturali, giornali, circoli artistici e sportivi visti come strumenti di educazione. L’attività fisica venne incoraggiata e allargata alle classi meno abbienti che cominciavano a praticare sport come il tennis, il canottaggio, il tiro, la pelota basca e anche il nascente fútbol.

Così, quando la comunità italiana consolidò le proprie basi sociali ed economiche a San Paolo, i circoli decisero di invitare quelli che erano gli esempi migliori del Belpaese calcistico: la Pro Vercelli, capace di vincere tre scudetti di seguito, 1911, 1912 e 1913, e il suo miglior avversario, il Torino.

Era stato Charles Miller a introdurre il football in Brasile senza minimamente intuire che avrebbe creato la più degna stirpe di interpreti del calcio moderno. Miller era nato a San Paolo nel 1874 da John, ingegnere scozzese impiegato nella costruzione delle ferrovie, e da madre brasiliana, anche lei di discendenza inglese, Carlota Fox. Inviato a studiare a Southampton, alla scuola pubblica Banister Court, apprese a giocare a football e a cricket. Rientrò in Brasile nel 1894 sbarcando a Santos con due palloni sottobraccio. Il padre John restò stupito: «Cosa sarebbero quelle cose?» chiese. «La mia laurea» rispose il figlio raccontando le sue imprese come ala sinistra nel St. Mary’s, il precursore del Southampton FC. Charles convinse gli amici a formare il São Paulo Athletic Club e  quindi la Liga Paulista, gli albori del calcio brasiliano. Nel 1902 a San Paolo ebbe inizio il primo campionato di calcio. A Rio de Janeiro il calcio lo introdusse un altro anglo-brasiliano, tale Oscar Cox, portando il primo pallone carioca al suo rientro da Losanna. Nel 1901 Cox organizzò la prima partita di calcio tra i componenti della Rio Cricket and Athletic Association e alcuni giovani benestanti locali, desiderosi di conoscere le novità che provenivano dall’Europa. Di lì a poco Cox fondò la Fluminense. Ma il primo vero club calcistico brasiliano fu istituito nel 1900 da una colonia di tedeschi nel Rio Grande, al confine con l’Uruguay. Svincolatosi per ultimo dalla schiavitù, il Brasile vide una massa immensa di ragazzi neri cercare fortuna nelle città. A Rio de Janeiro appresero a giocare al calcio proprio guardando le partite della Fluminense e si accorsero che potevano esportarlo anche nelle strade, magari utilizzando una palla di stracci. Così già nel 1910 in ogni quartiere di Rio c’era una squadra di calcio. La prima ad utilizzare calciatori di colore fu l’Athletic Club fondata nel 1904 da imprenditori tessili inglesi nel sobborgo di Bangu. Il Vasco da Gama, squadra della comunità portoghese di Rio, vinse il suo primo scudetto nel 1923 con tre neri, un mulatto e sette bianchi, prelevati da altre società, tutti assunti nei negozi dei commercianti locali e inviati alle scuole serali per apprendere a leggere e scrivere. Nel 1933 la squadra del Rio Bonsucesso era interamente formata da calciatori di colore.

Il flusso migratorio di fine Ottocento-inizio Novecento imponeva un forte legame con il Vecchio Mondo, un cordone ombelicale che si poteva rintracciare ovunque nel desiderio di rottura con un passato imbevuto dai dettami della Missione per lasciare posto prima al ciclo del caffè e quindi alla industrializzazione. San Paolo si dotò subito di simboli adeguati alla nuova ricchezza prodotta dal lavoro europeo: le case di taipa (fango e legno) furono sostituite dal mattone, le strade allargate e rese transitabili ai nuovi mezzi, i giardini arricchiti di spazi sportivi e ricreativi. Il linguaggio coloniale urbano fu affidato ad architetti, muratori e scultori europei, italiani in particolare. «Innumerevoli parchi, piazze, incroci, snodi viari hanno in San Paolo i loro monumenti che costituiscono l’ornamento della città, ricordo della storia e di personaggi che ne hanno delineato il volto. Il nostro pantheon disperso che narra avvenimenti riunendo quanto di importante è qui accaduto, simbolizzato principalmente nei Bandeirantes» ha scritto Pietro Maria Bardi, lo spezzino che nel 1946 ha inventato il Masp (Museo d’arte di San Paolo) su richiesta del magnate della stampa brasiliana Assis Chateaubriand. Il calcio entrò nell’ottica urbana con le sue geometrie, gli spigoli, le porte in legno, le righe di polvere di cemento tracciate a terra. Era un gradino di avanzamento della società che copiava la vecchia Europa nella lontananza senza volersene staccare. Anche se il calcio in Brasile arrivò in ritardo rispetto ad altri paesi limitrofi: in Argentina venne importato qualche decennio prima grazie ad una compagnia inglese incaricata della costruzione della rete ferroviaria che partiva da Buenos Aires; a Montevideo fu introdotto da un importatore di frigoriferi inglesi. Le due nazioni conobbero il football contemporaneamente e giocarono il loro primo incontro internazionale nel 1899 a Montevideo, al circolo sportivo La Blanqueada, anche se quasi tutti i contendenti erano marinai, commercianti e funzionari inglesi residenti nei due paesi. Il Buenos Aires team superò il Montevideo team per 3-0.

Il giorno in cui la Pro Vercelli sbarcò al porto di Rio de Janeiro (era il 1° agosto 1914) scendendo la passerella della motonave “Cordova”, partita dal molo di Genova il 15 luglio, fu accolta da uno sventolio di tricolori. Anche in questo caso i vercellesi erano riusciti a battere sul filo di lana i cugini del Torino che sbarcheranno in Brasile qualche giorno dopo. La partenza dei bianchi piemontesi era stata accompagnata da forti    polemiche nella penisola. La Figc (Federazione italiana giuoco calcio) era infatti contraria ad una tournée così faticosa e incerta. La Pro aveva chiesto e ottenuto alcuni elementi delle squadre del Nord, orgogliosi di vestire le Bianche Casacche per dare lustro al calcio italiano, come ci informa Marco Sappino (La Grande Guerra ai Tropici, Imprimatur 2015): il casalese, nativo di Vercelli, Parodi; De Ambrosis e Pensotti del Novara; Carcano, futuro allenatore della Juventus dei cinque scudetti negli anni Trenta, e Grillo dell'Alessandria; Dalmazzo della Juventus.