Si percepisce un’aria tesa in casa leghista. Qualche voce di corridoio si spinge addirittura a parlare di un prossimo Congresso, dopo le Amministrative, in cui potrebbe essere messa in discussione la leadership di Matteo Salvini da parte dell’ala “moderata” del partito, capeggiata da Giancarlo Giorgetti e dai tre governatori del Nord: Luca Zaia, Massimiliano Fedriga e Attilio Fontana. Ora, è assai improbabile che ciò si verifichi, ma di certo la Lega “di governo” sembra averne abbastanza delle intemperanze della Lega “di lotta”. I moderati del partito non avrebbero digerito l’improvviso ritorno – da parte di Salvini e degli elementi radicali, come Claudio Borghi, Armando Siri e Alberto Bagnai – alla retorica ribellista e anti-sistema dei primi tempi, quelli del No-euro e dei patti elettorali con Casapound e i vari gruppetti della destra extra-parlamentare.

A far esplodere il dissenso, comunque già presente da parecchio tempo, sarebbe stata la strizzata d’occhio ai No-vax, l’opposizione all’estensione del green pass e la rincorsa di Giorgia Meloni, nel disperato tentativo di frenare l’ascesa elettorale (stando ai sondaggi) di quest’ultima, anche a discapito della Lega stessa. I sondaggi, infatti, proprio al Nord, dove il Carroccio è nato e ha mosso i primi passi, non soddisferebbero le aspettative: di questo vengono accusate proprio le discutibili prese di posizioni salviniane dell’ultimo periodo, che avrebbero causato una modesta perdita di consenso da parte dell’elettorato moderato. I governatori leghisti avrebbero più volte esternato il loro dissenso rispetto alla linea del leader. La loro visione, al contrario, sarebbe più simile a quella di Forza Italia: pur non ritenendo necessario l’obbligo vaccinale (se non come extrema ratio) sono concordi nell’affermare che il “green pass” sia uno strumento per garantire maggiore sicurezza ai cittadini, specialmente sui luoghi di lavoro e di socialità, oltre che per evitare un nuovo ingolfamento delle terapie intensive e conseguenti nuove restrizioni. Punto importantissimo per le Regioni, che gestiscono la sanità.

L’impressione di molti opinionisti e commentatori – incluso il sottoscritto – è che lo scontro non sia tanto tra un’anima moderata e istituzionale e una intransigente e anti-sistema, bensì tra un’ala realista e una ideologica. Matteo Salvini insiste nel bollare l’obbligo vaccinale e l’estensione del Green pass come inutili e liberticidi: ma i governatori, con il pragmatismo che contraddistingue gli amministratori locali rispetto ai politici “romani”, riconoscono che non solo si tratta di misure che aumenterebbero la percezione di sicurezza dei cittadini (i sondaggi ci dicono che il sessantacinque percento degli italiani sarebbe favorevole all’obbligo, mentre l’ottanta percento sostiene l’estensione del Green pass), ma che permetterebbero un più rapido ritorno alla normalità e alla produttività in termini economici: questione molto sentita in quel Nord che è storicamente la “locomotiva d’Italia”.

In altri termini, se a Salvini interessano le questioni di principio, ai governatori del suo partito stanno molto più a cuore gli effetti concreti delle misure, tanto sull’economia quanto sulla percezione degli italiani. Ideologia contro realtà, per l’appunto. Nè i governatori giudicano sensato gareggiare con la Meloni per aggiudicarsi il voto degli scettici o dei contrari nei riguardi del vaccino e delle misure di contenimento del virus. Si dice nei corridoi leghisti che se la Meloni vuole intercettare i consensi di qualche sparuta minoranza e avvicinarsi a mondi “intoccabili” come Casapound o Forza Nuova, faccia pure: la Lega, dal canto suo, deve restare un partito rappresentativo degli interessi della borghesia e del mondo produttivo, in gran parte favorevole alla “ripartenza in sicurezza”. E il sospetto – abbastanza forte all’interno del Carroccio – è che Salvini stia facendo un’opposizione così dura nei riguardi dei provvedimenti per la sicurezza sanitaria solo per impedire l’afflusso di ulteriori consensi verso Fratelli d’Italia.

Una cosa simile si era già verificata nel 1994, quando molti leghisti della prima ora scelsero di passare ad Alleanza nazionale, appena sorta dalle ceneri del vecchio Movimento Sociale. In quell’occasione, Umberto Bossi disse loro di accomodarsi: non c’era alcun bisogno di loro nella Lega, né c’era posto per coloro la cui fede nel progetto federalista e autonomista era così debole da venire meno dinanzi ai calcoli politico-elettorali. Non si capisce cosa impedisce a Salvini di fare le stesse considerazioni relativamente ai leghisti che scelgono di entrare in Fratelli d’Italia o ai voti che potenzialmente potrebbero essere attratti da una destra che si atteggia a oppositrice del sistema: ciascuno è libero di aderire o di votare la formazione che vuole, ma la Lega rimane comunque un “partito d’ordine”, una forza conservatrice e democratica, capace di rivolgersi anche all’elettorato centrista, liberale e moderato.

L’ala “di governo” del movimento – a cominciare da Giorgetti – ha fatto del suo meglio per istituzionalizzare (qualcuno direbbe per “indoppiopettare”) Matteo Salvini; per costringerlo a indossare l’abito blu; per fare della Lega il portavoce degli imprenditori, dei commercianti, degli agricoltori e dei liberi professionisti italiani; per indurre il Capitano ad abbassare i toni sull’Europa (data l’importanza di mantenere con essa buoni rapporti, tanto per ragioni economiche quanto che per motivi di collocazione geo-politica). Passi la svolta in senso nazionale e il ridimensionamento dell’enfasi posta sul federalismo, ma è inaccettabile che si “perda la bussola” in questo modo attribuendo più peso al potenziale consenso di qualche sparuto gruppetto (incapace di muovere anche le virgole, in termini elettorali) piuttosto che al consenso attuale del ceto produttivo, che non riesce più a capire la scelte del leader del partito che dovrebbe rappresentarli. A questo proposito, Salvini dice sempre che le priorità degli italiani sono il lavoro, le pensioni, la sanità, le tasse e la sicurezza. Ma se lo pensa davvero, allora dovrebbe concentrarsi su quello che vuole la “maggioranza silenziosa” di questo Paese, sintonizzandosi sulle “frequenze del comune buonsenso”, invece di perdersi in vuota demagogia e di rincorrere il consenso di qualche frangia anti qualcosa.

GABRIELE MINOTTI