Recita un antico adagio: “Chi ben comincia è a metà dell’opera”. Elaborato il lutto per la batosta elettorale, il centrodestra è ripartito con il piede giusto. Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni si sono incontrati per fare il punto sul post-voto. Un primo passo significativo in una fase storica del centrodestra dove anche sedersi intorno a un tavolo a discutere era diventato un problema. Scopo principale della riunione ha riguardato il rilancio della coalizione, che potrebbe sembrare un’ovvietà ma non lo è affatto. Già, perché il dissennato comportamento dei due virgulti, Matteo e Giorgia, che hanno speso (malamente) il tempo della campagna elettorale a farsi la guerra, ha creato un fondato motivo per temere che la coalizione fosse giunta al capolinea e che l’ognunper-sé dovesse diventare il nuovo mantra della destra plurale in Italia. Scampato pericolo! Perché, stavolta, Silvio c’è.

E meno male. Il vecchio leone, di là dall’avanzare degli anni, dalla prolungata assenza dalla scena politica causa Covid e dal magro risultato elettorale riportato da Forza Italia, ha dimostrato a tutti, amici e nemici, di essere ancora lui il tenace custode dell’unità a destra. L’incontro di Villa Grande, residenza romana di Berlusconi, ha confermato una incontrovertibile verità: divisi si perde. Ragione per la quale lo sforzo congiunto dei tre leader, tesaurizzata la lezione delle urne, non può che mirare alla ricomposizione di un progetto unitario a cui connettere una strategia condivisa. Che non è impresa agevole, attesa la volontà dei tre di non mutare collocazione rispetto al Governo Draghi. Ora, è legittimo domandarsi se sia possibile concepire un percorso comune permanendo posizioni divergenti. In condizioni normali risponderemmo negativamente. Ma quando c’è di mezzo Berlusconi niente è impossibile. Resta da capire con quali contenuti i tre leader intendano dare corpo a quel passaggio del comunicato finale dell’incontro in cui si parla di “concordare azioni parlamentari condivise”.

Intanto, si riparte dal metodo di lavoro, che è l’approccio migliore all’implementazione di qualsiasi strategia. Si ritorna agli incontri settimanali tra i leader del centrodestra, sulla falsariga delle mitiche “cene del lunedì” di Arcore, quando Silvio Berlusconi e Umberto Bossi decidevano, lontani da Roma, i destini dell’Italia. Il confronto continuo è il giusto modo di procedere: parlarsi è sempre meglio che guardarsi in cagnesco. Poi, ci sarà da individuare le battaglie sulle quali marciare uniti. Viene il sospetto che il vecchio leone di Arcore stia pensando all’ennesimo coup de théâtre: fatta salva la collocazione all’opposizione di Fratelli d’Italia, spingere Giorgia Meloni a condividere proposte che Mario Draghi possa intestarsi traducendole in atti di Governo. Per la leader di Fratelli d’Italia non sarebbe un cedimento giacché fu lei ad affermare, nel dibattito parlamentare sulla fiducia all’Esecutivo Draghi, che il suo partito avrebbe votato a favore di tutti i provvedimenti ritenuti vantaggiosi per gli italiani. Sarebbe una mossa geniale per restituire centralità a tutto il centrodestra. E sarebbe uno schiaffo alle pretese di signoraggio del centrosinistra sulla moneta politica che reca l’effige di Mario Draghi.

Ma il pranzo dell’altro giorno ha prodotto due decisioni fondamentali. La prima: nessun ritorno al proporzionale. Buonissima notizia. Era un po’ che, sull’argomento riforma elettorale, in Forza Italia tirasse una strana aria. L’ala “governista-draghiana” del partito, in assenza del capo, ha ipotizzato un ribaltamento del quadro delle alleanze a destra, praticabile soltanto in costanza di una legge elettorale di stampo proporzionale. Questi “audaci con i voti degli altri” hanno pensato alla spallata sfruttando il pretesto dei pessimi risultati elettorali. Peccato per loro che sia piombato sulla capitale il vecchio leone a rimettere tutti in riga. Lo si è visto con la vicenda della nomina del capogruppo forzista a Montecitorio in sostituzione dell’uscente Roberto Occhiuto, eletto presidente della Regione Calabria. La frazione “governista-draghiana” dei deputati azzurri aveva candidato Sestino Giacomoni, in segno di sfida aperta al coordinatore del partito, Antonio Tajani. Per strappare il controllo del gruppo parlamentare ai berlusconiani ortodossi, i “governisti-draghiani” hanno chiesto che si votasse a scrutinio segreto.

Invece, in apertura di assemblea è giunto l’ordine esecutivo da Berlusconi di nominare capogruppo il deputato Paolo Barelli. Pratica chiusa: Mariastella Gelmini in lacrime, Mara Carfagna ammutolita, la frazione dissidente rimasta col cerino acceso in mano e doccia fredda per gli avvoltoi del centrosinistra, che già pregustavano il momento in cui si sarebbero spartiti le spoglie del partito berlusconianodopo averne usato i parlamentari per far passare a maggioranza la riforma elettorale in senso proporzionale. Con il centrodestra unito sul sistema a prevalenza maggioritario addio sogni di gloria da aghi della bilancia per renziani, mastelliani, calendiani e per ogni sorta di fauna stanziale dalle parti del centro politico. La seconda decisione presa. I tre leader hanno stretto un patto per scalare il Quirinale. Era ora che il centrodestra ritrovasse quel minimo di orgoglio e di fiducia in se stesso per tentare l’impresa. Vincere la partita per la presidenza della Repubblica non sarà facile, ma con un Parlamento affollato da una massa di “peones” allo sbando – per lo più Cinque Stelle che, nella liquefazione dell’utopia grillina e nella provata incapacità di Giuseppe Conte di assicurargli un futuro politico, non rispondono più a nessuno se non a se stessi – una vittoria anche di misura, dal quarto scrutinio, sarà possibile.

Una considerazione finale: se tutto questo ben di Dio è venuto fuori da un pranzo consumato velocemente, c’è da supporre che il popolo di destra sarebbe pronto a pagare la pensione completa per un anno intero – prima colazione compresa – ai tre leader, purché tornino a intendersi. Questo popolo, troppo spesso mortificato dall’arroganza della sinistra, vuole il Governo. E ha tutto il diritto di pretenderlo per i propri rappresentanti, dopo anni di vittorie negate, di carte della democrazia truccate e di spregiudicati bari a tenere banco.

CRISTOFARO SOLA