di Franco Monaco

L'establishment e i suoi media all'unisono fanno il tifo per Giancarlo Giorgetti, lo rappresentano come uno statista, lo accreditano capace di "convertire" la Lega scalzando Salvini. Sarei più prudente. Intendiamoci: sarebbe riduttivo interpretare le divergenze interne al partito come un mero gioco delle parti. Il conflitto c'è. Ma scommettere sulla spaccatura o anche solo sull'esito favorevole a Giorgetti del braccio di ferro mi sembra azzardato. Per più ragioni.

Primo: i limiti soggettivi del numero due della Lega. Egli è certo uomo pragmatico, dotato di buon senso, ma, nella sua quasi trentennale parabola politica, ha sempre svolto un ruolo ancillare. A fianco del Bossi, prima secessionista, poi federalista, infine strettamente subalterno a Berlusconi; al fianco di Maroni che mollò il vecchio leader e fondatore debilitato dalla malattia e dallo scandalo della "family"; infine al fianco di Salvini e della sua repentina ascesa grazie alla svolta sovranista. Molte, troppe versioni della Lega, senza che mai Giorgetti abbia mostrato di ambire alla leadership politica del movimento.

Secondo: chi troppo scommette su di lui, a mio avviso, opera una lettura approssimativa e superficiale di quell'anima della Lega rappresentata quale "partito del nord" di cui Giorgetti sarebbe il terminale. Quella base elettorale e sociale che si fa coincidere con i ceti produttivi e le partite iva è un impasto di interessi, di opinioni, di umori che è generoso concepire come riconducibile a una cifra moderata, liberale, europeista. Non sarei così sicuro che quel mondo così composito sia rappresentato da Giorgetti (o comunque dal Giorgetti proiezione dei desiderata dell'establishment) più di quanto non lo sia da Salvini. Si pensi a questioni di merito politicamente qualificanti come la sicurezza, il fisco, l'immigrazione, i diritti civili.

Terzo: più in generale mi sentirei di sostenere che, pur in calo da qualche tempo, il livello di consenso conseguito dalla Lega salviniana attesta che decisivo e, allo stato non suscettibile di essere surrogato, è il contributo che tuttora è assicurato dalla politica e dalle strategie comunicative di Salvini. Piaccia o non piaccia. Per dirla più crudamente: sono più i voti di opinione che porta Salvini di quelli che porta Giorgetti. Conta la legittimazione agli occhi dell'establishment nazionale ed europeo, ma, scusate, contano anche i voti.

Quarto: a sopravvalutare il fenomeno Giorgetti da parte degli analisti, concorre un difetto di lettura dello scenario ovvero la frettolosa, volontaristica illusione che la stagione del populismo e del sovranismo (concetti diversi ma intrecciati) sia archiviata alle nostre spalle. Purtroppo non è così: la impetuosa ascesa di Fratelli d'Italia, le dinamiche politico-elettorali dei paesi del centro e dell'est Europa e persino le prime difficoltà che affiorano sul cammino di Biden negli Usa suggeriscono di contenere le miracolistiche attese circa l'attitudine di Giorgetti di cambiare il corso della politica e persino gli equilibri costituzionali. Ci vuole ben altro.