Di JUAN RASO

Tra le tante parole inglesi che – un po’ complessati – abbiamo introdotto nel nostro vocabolario, c’è privacy, che si riferisce a quella ampia zona del nostro essere che include la nostra intimità e quanto di personale ci sia nei rapporti non solo con gli altri, ma anche con noi stessi, con il nostro corpo e il nostro spirito.

L’espressione privacy non é nuova e le sue origini le troviamo negli Stati Uniti verso gli anni sessanta del secolo scorso, quando nacquero diversi conflitti rapportati al fatto che molte aziende cominciavano ad immagazzinare massivamente informazione personale di lavoratori e clienti. In quelle circostanze i tribunali nordamericani – appoggiandosi nel sistema del common law – riscattarono precedenti di sentenze degli inizi del secolo XX, dove si indicava che “l’uomo ha il diritto ad essere lasciato solo” (the rights to be let alone). Questa prima enunciazione del diritto alla privacy  era giá stata fatta da Warren y Brandeis, autori che  nel 1890 pubblicarono un testo dal titolo Right of privacy, che fondamentalmente difendeva il diritto delle persone a non essere invase dalla stampa nella loro vita privata. Si violava il diritto, quando si violentava la privacy del cittadino.

A partire dagli ultimi anni del secolo scorso, il diritto alla privacy ha fatto uno strano percorso. Da una parte – almeno in teoría – si é esteso ad una sfera molto ampia, che include i rapporti familiari, amorosi, sessuali, la salute, le comunicazioni e immagini personali, ma dall’altra questi pretesi diritti sono preda di infinitá di compagnie di software, applicazioni digitali. reti ed altre realtá virtuali in Internet. Mentre si moltiplicano le norme a tutela della nostra intimitá e protezione dei dati personali, la realtá mostra che ogni volta di piú – in modo cosciente o meno – consegniamo i nostri dati, idee ed emozioni piú intime al sistema globale delle reti.

Ci sorprendiamo – un po’ ingenuamente – che Google o Whatsapp siano servizi gratuiti e ci comportiamo como se fossimo noi i padroni delle diverse applicazioni. Crediamo usarle, quando in realtá sono proprio tali applicazioni e reti che ci usano: in modo indolore, assorbono le piú remote particole della nostra privacy e lo fanno gratuitamente. Ricordo un vecchio film de Pink Floyd, in cui centinaia di giovani si avviavano tutti allineati verso l'abisso e precipitavano in esso, mentre la nota banda musicale suonava il brano “Another Brick in The Wall”.

Continuo a credere che la nostra privacy vale molto, ma temo che come quei giovani del film, avanziamo per precipitare inesorabilmente nell’abisso del mondo digitale. Il nostro telefonino, facebook, Google ne sanno piú di noi, piú che quello che potrebbe saperne u amico intimo o il nostro familiare piú amato. Come nel Fausto di Goethe non esitiamo ad offrire alle reti le parti piú riservate di “noi stessi”, a cambio di ricevere una rapida informazione o parlare gratuitamente a qualsiasi parte del mondo o costruire una vetrina digitale, in cui mettere in mostra il nostro pudore. Come nel patto faustiano, tutto sembra gratuito. Il vero contratto stabilisce la consegna della nostra intimitá  (la nostra anima, come nel Fausto) a cambio delle offerte straordinarie di reti ed applicazioni.

Ma perché questo scambio? Perché le reti hanno come obiettivo entrare nella nostra privacy? Le risposte possono essere diverse, ma due mi convincono piú di tutte. La prima questione é che la privacy di milioni o miliardi di cittadini vale ben molto denaro, perché permette alimentare gli algoritmi e l'Intelligenza Artificiale e costruire una societá del consumo fatto a misura dei nostri desideri e gusti. La seconda risposta riguarda una societá dove il controllo del potere sul cittadino si intensifica a livelli sconosciuti del passato. La societá dell'eccesso e la societá del controllo si costruiscono proprio a partire dal valore che hanno la nostre sensibilitá, gusti ed emozioni nei momenti intimi della nostra vita.

La risposta quindi alla domanda del titolo é semplice: la nostra privacy vale milioni; peccato che ne regaliamo ogni giorno un po’, quando parliamo al telefonino o scriviamo nel computer.