di Claudio Giua

È già un confronto acceso, sarà anche lungo e pieno di insidie. Da una parte gli editori che pretendono, a ragione, che l’utilizzo dei loro contenuti digitali sia correttamente retribuito dalle grandi piattaforme (anni fa venivano definite OTT, Over The Top: Google, Facebook, Instagram, Twitter, YouTube eccetera) e anche dalle più piccole, come stabilito dall’Unione Europea nel marzo di due anni fa. Dall’altra i social network, i motori di ricerca, gli aggregatori e le rassegne stampa che faranno il possibile per evitare di pagare.

La prima scaramuccia seria è scoppiata l’altra sera, nemmeno 24 ore dopo l’entrata in vigore in Italia delle norme che recepiscono la direttiva comunitaria 790 del 2019. Senza darne comunicazione agli utenti e solo informando all’ultimo minuto gli editori, Facebook ha cambiato le modalità di pubblicazionedei “link di terze parti”, che adesso non sono più accompagnati da un’immagine e da un testo (l’”anteprima”). Per essere chiari: se vorrete condividere su Facebook questo articolo, di fatto metterete a disposizione il link con il titolo e la testata di provenienza. Nient’altro. In una nota chiesta e ottenuta dal Corriere della Sera, Facebook sostiene di aver introdotto questa novità “nel rispetto della legge”, per far sì che “il controllo rimanga nelle mani dei titolari dei contenuti che utilizzano le nostre piattaforme. Ci impegniamo a rafforzare le soluzioni che offriamo, per aiutare il settore a soddisfare le esigenze di un’era sempre più digitale”. A di là delle affermazioni, in questa forma minimalista di pubblicazione la visibilità e quindi la fruizione dei contenuti sono fortemente penalizzate. Insomma, il rischio è che ci sia un calo significativo nel traffico veicolato da Facebook verso i siti editoriali. A subire i danni più gravi saranno probabilmente gli editori più digitali (i “pure digital” come Fanpage, per esempio) e quelli con i contenuti meno originali. Il sospetto più che fondato è che Facebook voglia piuttosto creare condizioni tali da raffreddare qualsiasi richiesta di compenso da parte degli editori: come fece Google in Spagna sette anni fa, quando piuttosto che retribuire i contenuti editoriali nel servizio News, come stabilito dalla legge nazionale, preferì chiuderlo.

La decisione di Facebook, e quelle analoghe che potrebbero prendere a breve Google e gli altri OTT, è una conseguenza della creazione e, dall’altro ieri, dell’applicazione dei cosiddetti “diritti connessi” (s’intende: connessi al diritto d’autore), che sono esclusivi di editori e autori e consentono di autorizzare o vietare la riproduzione diretta o indiretta dei contenuti editoriali online. È stata questa la strada scelta dal legislatore europeo per permettere la valorizzazione economica dei prodotti soprattutto giornalistici. Il legislatore italiano ha adottato un meccanismo di negoziazione assistita dai tempi certi che garantisca il rispetto dei “diritti connessi”, lasciando come ultima carta il ricorso alla giustizia ordinaria. Entro due mesi a partire dal 12 dicembre, l’AgCom (l’autorità regolatoria delle comunicazioni) dovrà definire come si determina “l’equo compenso” previsto dai legislatori europeo e nazionale. E sempre l’AgCom interverrà successivamente in caso di mancato accordo tra le parti, in modi e tempi ancora non ufficializzati, prima di affidarsi alla magistratura. Resta centrale la definizione di “estratti molto brevi” per la cui pubblicazione nulla sarà dovuto dalle piattaforme agli editori e agli autori: in Italia è prevalso il criterio qualitativo e non quantitativo (cioè l’esaustività del breve estratto, non la sua lunghezza).

Come sempre, per capire cosa c’è dietro le grandi manovre e le minime tattiche bisogna ripercorrere le vie dei quattrini, l’inglese “follow the money”. I soldi sono parecchi. In un mercato più ricco di quello italiano, la principale delle tredici società di gestione collettiva che rappresentano gli interessi degli editori tedeschi sta proponendo agli OTT contratti che calcolano le remunerazioni per il 2022 in 190 milioni di euro a carico di Facebook e Instagram (entrambi del gruppo Meta, controllato da Mark Zuckerberg) e 420 milioni di euro a carico di Alphabet, ossia Google. Nel 2020 Meta ha generato ricavi in Germania per cinque miliardi di euro, Alphabet addirittura per nove. Per mesi le due maggiori piattaforme hanno corteggiato i principali gruppi editoriali del continente per convincerli a chiudere accordi che evitassero l’applicazione di quanto previsto dalle nuove norme sul copyright.

Per una volta, l’Italia è nel gruppo dei paesi che hanno approvato per tempo la legge nazionale che tiene conto di quanto stabilito dall’articolo 15 della direttiva dell’Unione: gli altri sono la Francia, i Paesi Bassi, l’Ungheria, la Germania e la Danimarca. Il primi a far valere i “diritti connessi” sono stati i francesi, un anno fa. Google ha reagito negativamente, al punto da costringere, l’estate scorsa, l’antitrust a intervenire, accusando la società di Mountain View di non aver negoziato con equità con gli editori. Pochi giorni fa Google ha dovuto versare i 500 milioni di euro di multa, nonostante avesse annunciato ricorso.