di Alessandro De Angelis

 

Adesso anche Salvini, che era stato taciturno alla riunione del centrodestra di sabato, mette agli atti che “Draghi deve restare a palazzo Chigi, altrimenti sarebbe pericoloso per l’Italia”. E pure Conte è ringalluzzito, in un clima di rivincita della politica contro la tecnica nel noto timore che Draghi, dal Quirinale, non farebbe toccare palla a nessuno. Con la sua mossa il Cavaliere – cado io, ma con me cadi anche tu – ha reso il re nudo, disvelando che, almeno finora, c’è un’onda destruens da parte della politica, ma non un’onda construens. Un po’ come accadde un anno fa quando, caduto Conte, il sistema dei partiti, iniziò a girare a vuoto finché Mattarella, nei panni del demiurgo, non indicò, appunto il nome di Draghi.

Alla vigilia della prima votazione, destinata ad andare a vuoto senza neanche la finta di nomi di bandiera, non c’è una sola proposta sul campo, nell’assuefazione di tutti e dopo mesi, dicasi mesi, di discussione in materia. Salvini, che prima di Natale aveva annunciato un tavolo con tutti i partiti, poi rinviato a dopo la manovra, fa sapere che domani farà tre o quattro nomi, la famosa rosa, ma probabilmente è solo un’ennesima mossa tattica. L’altro Matteo, viva la sincerità, spiega che prima di martedì sera non si concluderà niente ed “è tutta tattica”.

È come se il tempo non finisse mai e c’è sempre un altro giorno, con un’altra riunione indetta mentre non si riescono a convocare per l’oggi, come nel caso di centrodestra: né di coalizione ma neanche dei gruppi della Lega con la scusa che non c’è a disposizione una sala grande, nel malumore di parecchi parlamentari. È clamoroso quel che sta accadendo da quelle parti, dopo la traumatica spaccatura di sabato: solo Meloni è per Draghi, perché non ha il problema del dopo, inteso come governo, e ne vede l’opportunità per andare alle elezioni anticipate, Forza Italia è sotto choc, Salvini gioca di sponda con Renzi, che non a caso evita di rispondere sui finti bersagli indicati dal leader della Lega, tipo Elisabetta Casellati e Letizia Moratti, ma invece in dieci secondi affonda pure il nome di bandiera del centrosinistra Andrea Riccardi. Se Salvini dicesse Dracula, eviterebbe di pronunciarsi, se Letta proponesse papa Francesco si direbbe perplesso.

Ed è chiaro che, se dopo le prime tre votazioni parte la rumba il ballerino più bravo è Pier Ferdinando Casini, perfetto profilo bipartisan, presidente della Camera del centrodestra, ma poi autonomo da Berlusconi, ed eletto nelle liste del Pd, con una sua caratura internazionale maturata sin da quando ha guidato l’internazionale democristiana per un decennio. Tutto lascia intendere che sia la carta “coperta”, perché il suo nome sta assumendo il significato di una rivincita della politica e di una centralità del Parlamento. Letta non potrebbe dire di no, consapevole che mezzo Pd lo vota e pure nei Cinque stelle non registra una certa ostilità ma è chiaro che, per non essere bruciato, deve uscire come punto di mediazione dopo le rose di parte. E, al momento, pur avendo un consenso trasversale ha anche un trasversale dissenso, a partire da Meloni e pezzi di centrodestra.

Il punto politico è l’effetto di questo assalto del centrodestra a Draghi, che non è compatibile con un virtuoso proseguo della legislatura. E rischia di bruciare la principale risorsa a disposizione dell’Italia. Fuori dall’ipocrisia: una sua bocciatura al Colle inevitabilmente ha un contraccolpo sul governo. È chiaro che non se ne può andare per ripicca con l’emergenza sanitaria da fronteggiare e il Pnrr da portare a termine, ma si troverebbe come timoniere indebolito di una nave in gran tempesta, peraltro tra i marosi di una campagna elettorale lunga un anno, che inizia il minuto dopo il Colle. Morale della favola, tra un anno l’Italia rischia di non avere più Draghi e Mattarella. Per avere di meglio bisognerebbe sapere dove si sta andando, e non come i protagonisti di Gioventù bruciata giocare in una folle corsa per poi ritrovarsi tutti schiantati dentro un burrone.