di PIETRO SALVATORI

Tira una brutta aria nel Movimento 5 stelle, in particolar modo dalle parti di Giuseppe Conte. Il day after dell’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale, una settimana di parossistica inconcludenza di tutti i principali leader di partito, regala scintille in casa pentastellata. Dopo mesi di tensioni a bassa intensità, è deflagrata la battaglia per il controllo del partito, o almeno della sua linea politica. La miccia è stata accesa da Luigi Di Maio: “Alcune leadership hanno fallito, hanno creato tensioni”, ha detto uscendo da Montecitorio, chiedendo l’apertura di “un confronto politico interno”. Le posizioni in campo sono riassumibili così: Di Maio e i suoi sospettano che Conte voglia andare a elezioni anticipate, fare tabula rasa di un partito che non è in grado di controllare e costruire liste elettorali di uomini a lui fedeli. I contiani sono convinti che l’unico obiettivo del ministro degli Esteri sia logorare la leadership del fu avvocato del popolo, per scalzarlo dalla guida del Movimento.

L’attacco di Di Maio ha colto nel segno, parole che sono esplose nel quartier generale di Giuseppe Conte, che è andato su tutte le furie: “Ma come si permette, sono mesi che lavora contro, ne dovrà rendere conto”, il senso del ragionamento del leader. Quella di Di Maio è stata una vera e propria ostentazione di forza. Prima si è presentato in Transatlantico circondato da staff, collaboratori e parlamentari a lui fedelissimi per assistere al 505° voto per Mattarella, rivendicando plasticamente l’essere stato artefice del risultato. Poi si è presentato davanti alle telecamere per l’affondo, costruendo una coreografia di deputati e senatori che lo sostengono. Un messaggio che ha colto nel segno: “Se Di Maio ha delle posizioni le chiarirà, perché lui era in cabina di regia, come ministro l'ho fatto partecipare. Chiarirà i suoi comportamenti, ma non a Conte, agli iscritti”, ha risposto a tono il capo politico.

È una lite a tutto campo. Qualche ora dopo Di Maio respinge le accuse al mittente: "Non si è mai parlato di fare annunci roboanti su presunti accordi raggiunti con Pd e Lega, oggi smentiti anche dal segretario dem Letta. Non si provi a scaricare le responsabilità su altri". Nella lotta entra anche Mario Turco, vice di Conte: "Alcuni lavoravano per obiettivi non condivisi". È il caos. Sono ore di telefonate febbrili, ore in cui i dimaiani vengono chiamati dai vertici: “Ma sei tra i responsabili del comitato su questo o quel tema, è questa la gratitudine?”. Il livello di discussione è già sceso ai minimi termini. “Sì, sì, mi hanno chiamato - racconta un deputato - hanno iniziato a parlare di elezioni, di candidature…”. C’è chi già parla di possibile scissione, ma da entrambe le parti si tira il freno a mano su questa direzione.

Certo, le parole di Conte sono suonate a Di Maio sostanzialmente come quelle che portarono Gianfranco Fini a pronunciare il suo celebre “Che fai mi cacci?”, rafforzando il sospetto nel ministro. Se Matteo Salvini chiede una riflessione sul governo, Conte nel suo legalese invoca “un nuovo patto per i cittadini”, alimentando i sospetti di spallata. L’ex premier ne fa una questione di fedeltà, crede che Di Maio abbia remato contro i suoi tentativi di chiudere su Elisabetta Belloni, lo accusa di aver lavorato attivamente alla candidatura di Mario Draghi, nonostante il leader avesse imposto una linea contraria. Se "ci sono gruppi che ritengono di fare politica dentro i palazzi, questo non rappresenta il vero M5s”, dice il vicepresidente Riccardo Ricciardi, rispolverando uno degli armamentari più taglienti nella grammatica 5 stelle, l’accusa di inciuci sottobanco. Risponde un dimaiano di rango: “Hanno perso su tutta la linea, volevano un presidente eletto con un’altra maggioranza, con Salvini, per far cadere Draghi, ma non si arrendono”. Il riferimento è alla candidatura Belloni, vero casus belli nel deflagrare di questa guerra.

L’accusa è che Salvini e Conte, con la sponda di Beppe Grillo, abbiano forzato per provare un colpo di mano e eleggere la capa del Dis sapendo che il sì di Enrico Letta era un assenso di massima, che il segretario del Pd aveva chiesto tempo per sottoporre il nome a una parte del Pd e a Italia viva che non l’avrebbero presa bene, nella convinzione che il leader del Carroccio avrebbe iniziato lo stesso lavoro di persuasione con Forza Italia, anch’essi contrari. “Ma se la presentassimo non credi che passerebbe comunque, che è un nome valido?” Chiedevano gli sherpa dei vertici M5s ai colleghi degli altri partiti. Un’elezione con una maggioranza diversa da quella che sostiene il governo avrebbe portato al patatrac, e alle probabili dimissioni di Draghi, aprendo una crisi al buio che avrebbe potuto portare al voto. Spiega Mariolina Castellone, capogruppo al Senato, che “Se non avete una presidente è perché le altre forze politiche non hanno voluto convergere”. Insomma: da un lato Di Maio si intesta di aver sventato un blitz sull’asse gialloverde che avrebbe fatto esplodere il governo, dall’altro si risponde che quella messa in piedi è stata un’operazione di boicottaggio bella e buona, costruita ad arte per mandare a sbattere Conte contro un muro.

I sospetti dei dimaiani sono aumentati quando Marco Travaglio ha apostrofato Di Maio come “il Renzi dei 5 stelle”, ma soprattutto quando Alessandro Di Battista ha deciso di schierarsi nella contesa al fianco di Conte con toni tutt’altro che concilianti: "È vigliacco mettere oggi sul banco degli imputati l'ultimo arrivato che al netto di idee diverse su alcune questioni considero persona perbene e leale”. Carinerie che il capo politico non ha di certo disdegnato: “”e si potesse riaprire un dialogo con lui a me farebbe sicuramente piacere”. E qual è l’obiettivo comune di entrambi?, sussurrano i dimaiani: “Qualcosa non va, abbiamo aspettato troppo tempo per dirlo, è arrivato il momento”. È la resa dei conti, e siamo solo all’inizio.