La rielezione di Sergio Mattarella è stata la manifestazione clinica della crisi della politica. Un’assemblea di Grandi elettori che non ha saputo individuare una diversa figura di alto profilo per svolgere la funzione di Capo dello Stato incarna plasticamente il fallimento della democrazia mediata dai partiti. Non è un caso se, dopo il flop del “romanzo Quirinale”, da molte parti dell’opinione pubblica s’invochi l’elezione a suffragio universale della più alta magistratura della Repubblica. La gente ne ha piene le tasche di un politicismo autoreferenziale che tesse trame, racconta frottole, cospira e litiga mentre il Paese brucia. Prende piede il sospetto che l’intera classe dirigente partitica non sia all’altezza della gravità del momento. E il dubbio rischia di diventare certezza quando, tra qualche mese, i nodi determinati dalla crisi economica verranno al pettine.

È in questa desolante cornice che dobbiamo collocare l’implosione del centrodestra. Sul fronte dei liberali e conservatori tutto è andato storto. Ma qui il destino cinico e baro non c’entra. Gli errori commessi hanno una matrice comune nell’insipienza dei personaggi messi alla guida della coalizione. Più di tutti ha sbagliato Matteo Salvini. Il segretario leghista ha inanellato errori su errori che lo hanno condotto alla catastrofe. La partita “Quirinale” è iniziata con un masochistico autogoal, al quale però non può dichiararsi estranea Giorgia Meloni: la stroncatura sul nascere della candidatura di Silvio Berlusconi. L’insistenza di Salvini su fantomatici piani “B”, nel mentre il vecchio leone di Arcore era a caccia di voti nel campo avversario, ha dato la misura della fragilità strutturale del centrodestra. Dapprima sembrava che il leader leghista, mosso da un qualche insondabile disegno, avesse deliberatamente scelto di bruciare l’unica possibilità concreta per il centrodestra di spuntarla. Avendolo visto successivamente all’opera, con la girandola dei nomi sacrificati nel volgere di ore, ci siamo convinti che il “Capitano” non fosse un’aquila ma un tordo andato a impigliarsi da solo nella rete.

Il punto più basso è stato raggiunto con la vicenda “Casellati”. La presidente del Senato è stata mandata allo sbaraglio della votazione pur essendo l’unica nel centrodestra, per il suo profilo istituzionale, che avesse ancora una chance di successo. La sua candidatura avrebbe meritato maggiore riguardo perché, esaurite tutte le opzioni possibili, la seconda carica della Repubblica avrebbe potuto soddisfare il requisito di candidato super partesrichiesto dal centrosinistra. Buttarla in campo nel pieno della rissa è stato uno sbaglio da Abc della politica. Sebbene Salvini nella circostanza abbia le maggiori colpe, non può passare sotto silenzio il comportamento dei cosiddetti cespugli centristi aggregati alla coalizione e di un pezzo di Forza Italia. Che Elisabetta Casellati avesse la strada sbarrata per il Quirinale, dopo la decisione del Partito Democratico e dei Cinque Stelle di fare muro astenendosi, era chiaro. Ciononostante, la presidente del Senato avrebbe dovuto ricevere i voti compatti del centrodestra (453) che quantomeno l’avrebbero tenuta in partita ed evitato un’umiliazione. Invece, nella quinta votazione si è fermata a 382. La successiva verifica delle schede, che erano in qualche modo identificabili per gruppi di appartenenza, ha dimostrato che i 71 “franchi tiratori” erano annidati tra i gruppuscoli neo-centristi e Forza Italia. Un comportamento ignobile che non trova alcuna giustificazione nei tatticismi della politica. Non volevano la Casellati? Smaniavano per convergere sul nome di Pier Ferdinando Casini, il centrista con vista a sinistra? Perché non dirlo prima invece di colpire nell’urna? Inutile domandarlo, quando si sa che il colpo preferito dai cortigiani sia la pugnalata alla schiena.

Giunti al marasma, Silvio Berlusconi è tornato in campo per riprendere in mano il boccino del gioco. Troppo tardi, perché dopo il pasticcio combinato da Matteo Salvini sulla candidatura dell’ambasciatrice Elisabetta Belloni, data per fatta la sera e vaporizzata il mattino dopo, si è capito che l’unica via d’uscita sarebbe stata cristallizzare lo status quo riconsegnando per altri sette anni il Paese a Sergio Mattarella.

Ora, cosa accadrà? La previsione è che i cespugli centristi, ringalluzziti dalle faide interne a Forza Italia, provino a forzare sulla riforma elettorale in senso proporzionale nell’auspicio di continuare nei giochi di palazzo a dispetto della volontà degli elettori. Obiettivo ambizioso, ma difficile da conseguire. Cambiare le regole del gioco a meno di un anno dalla fine della legislatura sarebbe possibile soltanto se vi fosse un solido accordo nella maggioranza e un avallo esplicito del Governo. Entrambe condizioni improbabili, visto che Lega e Forza Italia restano ferme sul semi-maggioritario del format “Rosatellum” e a Palazzo Chigi c’è un Mario Draghi non proprio ben disposto ad assecondare liti tra i medesimi partiti che ne hanno stroncato le ambizioni quirinalizie.

Ci sarà da fronteggiare nei prossimi mesi un’emergenza economica causata da fattori congiunturali esogeni, per cui la maggioranza governativa non potrà permettersi scossoni o deragliamenti di sorta. I pochi mesi che restano alla fine della legislatura dovranno essere spesi per fare quelle tre o quattro cose necessarie a mettere in sicurezza la ripresa economica e, con essa, la stabilità dei conti pubblici. Inoltre, ci sarà da implementare il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) per ricevere i denari del fondo Next Generation Eu. Alla luce di ciò, si porrà il problema di ricostruire una coalizione di centrodestra. Anche se oggi tutto appare perduto, c’è spazio per una nota di ottimismo. Non è detto che non via sia una parte di bene in ciò che è capitato.

È stata una prova che, come tutti gli stress-test, ha fornito delle risposte. La prima. Una confluenza al centro non significa ridare voce e forza a un elettorale moderato e liberale. Il “centrismo” dei cespugli assemblati in Parlamento, come hanno dimostrato le storie personali di Clemente Mastella e Pier Ferdinando Casini, tende a essere attratto nel campo gravitazionale della sinistra. Al contrario, una rappresentanza dell’area liberale e riformista che voglia rimettersi in sintonia con il suo bacino elettorale deve ancorarsi a destra, com’è stato finora per Forza Italia.

La seconda. Matteo Salvini non può essere il leader della coalizione: non ne ha le capacità. Nel nuovo assetto del centrodestra occorrerebbe che le forze costituenti facessero tutte un passo indietro e, in deroga alla norma per cui comanda chi prende un voto in più, decidessero di reclutare non un kingmaker ma un playmaker, uno stratega che si occupasse a tempo pieno di lavorare all’unità della coalizione.

La terza. A Giorgia Meloni si apriranno davanti praterie di consensi grazie all’opposizione dura al Governo Draghi. E maggiori saranno le difficoltà nelle quali l’Esecutivo s’imbatterà, più in alto volerà l’indice di gradimento per Fratelli d’Italia. Facciamo una previsione: la corona imperlata con il 33 per cento raccolto dai Cinque Stelle nel 2018 potrebbe passare, nel 2023, sulla testa della “regina” Giorgia. Ma cosa ne farebbe la Meloni di una massa così ampia di consensi se decidesse di perseguire la politica dell’autoisolamento in stile lepenista?

Metabolizzata la disfatta, c’è un popolo a cui dedicarsi che ha bisogno di credere nella palingenesi dell’Araba fenice, l’uccello mitologico che risorge dalle proprie ceneri. C’è bisogno di ritrovare un sogno in cui credere dopo che il Paese è stato riconsegnato a un Capo dello Stato di parte, il quale, com’è già accaduto nel settennato che sta per concludersi, farà di tutto per impedire alla destra di approdare a Palazzo Chigi. Questa la razionalità. In calce, ci sia consentito di spendere un pensiero sullo stato d’animo di un elettore liberale-conservatore, che è anche il nostro, riassumibile nell’ossimoro ungarettiano dell’allegria del naufrago: “E subito riprende il viaggio/Come/Dopo il naufragio/Un superstite/Lupo di mare.