Nel giorno in cui Volodymyr Zelensky si palesa sui maxi schermi della Camera per un discorso a suo modo storico, l’unità nazionale a sostegno dell’Ucraina se non va in frantumi poco ci manca. Sembra un grande paradosso, è lo stato del Parlamento italiano e delle forze che lo compongono.

Il discorso del presidente ucraino seguito da quello di Mario Draghi – gli unici due interventi della giornata dopo le parole introduttive di Roberto Fico e Elisabetta Casellati – sono finiti da nemmeno un quarto d’ora quando la comunicazione della Lega avverte: fra dieci minuti Matteo Salvini parlerà di fronte a Montecitorio. Continua a dimenarsi il leader del Carroccio, tra la sua storica posizione di amico della Russia e l’impresentabilità di una posizione che non sia a sostegno dell’Ucraina.

Posizioni inconciliabili che Salvini ha ridotto a un inedito pacifismo di maniera, dopo essersi schierato apertamente negli anni passati a sostegno dell’intervento di Mosca in Crimea e in Donbass, e aver bollato piazza Maidan alla stregua di un colpo di stato fomentato dall’Occidente, una copia in carta carbone della propaganda del Cremlino. Che tirasse un’ariaccia lo si vede già in aula.

Draghi non utilizza mezze misure: “Di fronte ai massacri dobbiamo rispondere con gli aiuti, anche militari, alla resistenza”. Salvini che si è seduto in mezzo ai suoi socchiude gli occhi, le braccia rimangono conserte. L’intero gruppo leghista piomba nel gelo, i volti cristallizzati. Salvini esce e offre in pasto ai giornalisti il proprio controcanto: "La risposta dell’Occidente non può esser quella delle armi e degli allargamenti", dice, tirando una mazzata anche al passaggio del discorso in cui Draghi si è fatto promotore di un deciso sostegno alla richiesta ucraina di aderire all’Unione europea. E’ uno smarcamento clamoroso nel giorno in cui, almeno idealmente, l’Italia avrebbe dovuto mostrarsi unita di fronte al presidente assediato. Lo spettacolo non è dei migliori.

Gli ex 5 stelle di Alternativa, Italexit di Gianluigi Paragone, diversi leghisti e molti pentastellati disertano l’aula, alcuni per rimanersene a casa, altri gironzolando fuori da Montecitorio cercando di imbattersi “casualmente” in una telecamera per conquistarsi uno strapuntino di visibilità. Al di là delle motivazioni politiche, il partito del “ma che ci vado a fare per dieci minuti di discorso in video” conquista la maggioranza relativa: sono circa 300 i parlamentari assenti, un terzo della platea alla quale si è rivolto Zelensky. I leader ci sono tutti (oltre a Salvini, Letta, Meloni e Renzi). Chi c’era ha applaudito, ha dedicato due standing ovation al presidente ucraino in un tripudio di spillette gialle e blu, il forzista Andrea Ruggieri osserva che “vedere il presidente eletto di una nazione libera costretto a collegarsi come fosse un terrorista nel suo covo è di una violenza inaccettabile”. L’azzurro dice che “questo mi ricorda che siamo dalla parte giusta del mondo”, ma non tutti i suoi colleghi la pensano così.

La faccia è salva, ma sotto la superficie ondeggia un magma pronto ad esplodere L’unità nazionale è un colabrodo. Giuseppe Conte è attaccato al telefono con i suoi, cerca sponde in altri partiti, l’ordine del giorno per aumentare le spese militari che M5s ha votato alla Camera ora non va più bene, vuole portare i senatori a non votarlo, spera nella sponda del Carroccio. Anche i 5 stelle rumoreggiano sulle armi, Carla Ruocco dice di apprezzare “i toni più pacifisti utilizzati da Zelensky”, il collega Mattia Fantinati riflette sui “toni molto duri utilizzati da Draghi su armi e Europa”. La stessa osservazione di Walter Rizzetto, Fratelli d’Italia, che tuttavia aggiunge: “Noi abbiamo fatto una scelta di campo, siamo con lui, mi ha colpito vederlo così provato”.

Giorgia Meloni applaude: “Zelensky ha parlato da leader europeo, l’invasione è un’aggressione all’Ue”. Mentre i patrioti battono un colpo, ’assenza di Conte non passa inosservata. Un influente deputato del Pd osserva che “non è parlamentare, ma in quanto ex premier in tribuna sarebbe potuto venire”. E’ un vuoto pesante, significativo forse tanto quanto il presenzialismo di Salvini. L’umore nei rispettivi partiti è quello che è, divisi tra convintamente atlantisti e una robusta parte che se potesse, se fosse elettoralmente potabile, se ne laverebbe le mani di Kiev, delle bombe e dei civili che ogni giorno rimangono sotto le macerie. Sulle armi alla “resistenza ucraina” (Draghi dixit) si gioca una partita sotterranea che coinvolge ampie frange di Parlamento.

Arriva Gianni Tonelli, deputato del Carroccio. Condanna Putin e la sua aggressione, è preoccupato del mondo che verrà dopo. Ma l’invio degli armamenti a suo avviso vuol dire “prolungare questa agonia”, è “un accanimento terapeutico”. A pochi metri da lui Salvini si trincera dietro la posizione di Papa Francesco, diventato suo nume tutelare dopo le mille bordate degli scorsi anni sulla gestione dei flussi migratori. Poi aggiunge: “Quando si parla di armi, non sono mai felice”. Andavano bene quelle da distribuire agli italiani per la difesa autodafè delle proprie case contro i ladri, quelle inviate agli ucraini per difendere le proprie dalle bombe improvvisamente scottano. Segnali preoccupanti: il consenso trasversale su sanzioni, aiuti economici e militari sta rapidamente scemando.

PIETRO SALVATORI