L'OSSERVATORIO ITALIANO

di Anonimo Napoletano

 

 

Con un blitz all'alba che ha fatto scattare le manette ai polsi di nove persone, la polizia di Palermo ha decapitato un “intero mandamento”, da cui il nome della maxi-inchiesta coordinata dalla Procura del capoluogo siciliano. Una indagine che, oltre a sgominare i vertici della cosca Noce-Cruillas, che comprende le famiglie mafiose della Noce, Cruillas/Malaspina ed Altarello, a Palermo, ha anche messo in luce le dinamiche della nuova mafia, fotografando la scalata al potere del nuovo boss, Carmelo Giancarlo Sedita, 47 anni. Ne emerge un quadro preoccupante, in cui accanto al rispetto delle vecchie regole della mafia, costantemente richiamate ai giovani affiliati, si punta anche sul reclutamento di nuove leve e su un controllo capillare del territorio, realizzato attraverso le estorsioni a tutte le attività economiche, anche le più piccole e insignificanti, e ad ogni attività delinquenziale, dallo spaccio di droga ai furti d'auto, che dovevano ottenere sempre ed in ogni caso l'assenso dei vertici del mandamento, i quali richiedevano anche ai piccoli criminali il pagamento di una somma in favore del clan. 

L'inchiesta ha anche svelato le tecniche messe in campo di vertici del mandamento per sfuggire alle attenzioni delle forze dell'ordine, attraverso summit tenuti durante passeggiate in strade affollate e senza telefonini addosso. Da notare che cinque dei nove arrestati, incluso il capo mandamento, avevano già in passato scontato in carcere condanne per gli stessi reati. Circostanza che fa riflettere sull'effettiva capacità di rieducazione degli istituti di pena, specie quando si è in presenza di affiliati alla mafia, i quali quasi sempre mantengono intatti, e semmai rafforzano, anche dietro le sbarre i legami con la propria famiglia mafiosa.

Ed infatti, il pm che ha condotto le indagine scrive che l'affiliazione a “Cosa nostra” comporta «l'assoluta accettazione delle regole dell'agire mafioso e conseguentemente la messa a disposizione del sodalizio di ogni energia e risorsa personale per qualsiasi richiesto impiego criminale nell'ambito delle finalità proprie della stessa “Cosa nostra”, offrendo a questa un contributo anche materiale permanente, e sempre utilizzabile, già di per sé idoneo a potenziare l'operatività complessiva dell'organizzazione criminale».

Nel caso di  Carmelo Giancarlo Sedita, scrive sempre il pm, “la sua ascesa ai vertici di “Cosa nostra” sarebbe già stata favorita, negli anni passati, dai fratelli Lo Piccolo, alla presenza dei quali, peraltro, sarebbe stato ritualmente “combinato”, e sempre per volere di questi sarebbe stato, allora, posto a capo del suddetto sodalizio mafioso».

La sua storia criminale gli avrebbe permesso così di «riorganizzare ed imporre nuove regole all'intero del mandamento attraverso riunioni registrate dalla polizia giudiziaria, rese riservate dai partecipanti, secondo un collaudato protocollo, consistente nell'avviarsi, senza telefonino, in lunghe passeggiate lungo le pubbliche vie con i vertici delle altre famiglie mafiose». La riorganizzazione avrebbe comportato l'ascesa criminale di uomini di sua totale fiducia ed il contestuale ridimensionamento di quelli ritenuti nel mirino delle forze dell'ordine. L'indagine avrebbe evidenziato «alcuni soggetti di vertice dell'organizzazione tra cui colui che avrebbe assunto il controllo della cassa della famiglia acquisendone direttamente la gestione (“u vacilieddu”). Nella sua strategia rientrerebbe la presunta estensione a tappeto delle estorsioni, con imposizione del pizzo a tutti gli esercizi commerciali, strategia questa criticata da alcuni affiliati poiché sarebbero state coinvolte attività di poco conto e ciò avrebbe creato malcontento».

Durante un vertice mafioso «sarebbe stato rimproverato al capofamiglia della Noce – secondo gli inquirenti - l’aumento di nuove attività commerciali che andavano sottoposte a un più incisivo controllo. Quest’ultimo si sarebbe impegnato a fare il possibile per riportare il territorio e le relative attività economiche sotto il totale controllo nonostante fosse conscio dei rischi connessi ad una sua sovraesposizione nella riscossione del pizzo».

Tra le vittime delle estorsioni ci sarebbero anche gli ambulanti e numerosi esercenti che sarebbero stati costretti a pagare il pizzo o a chiedere l’autorizzazione prima di avviare i lavori. «Ne sarebbe la dimostrazione l’autorizzazione all’installazione di alcuni distributori a gettoni presso esercizi commerciali della zona». Stesso discorso per l’avvio di un autolavaggio che per di più avrebbe dovuto ristrutturare l’immobile. Nel corso di un episodio un commerciante sarebbe stato duramente rimproverato in quanto, nonostante il periodo di difficoltà economica, avrebbe osato rispondere in modo ritenuto “oltraggioso” all’emissario di Cosa nostra.

Rievocando le “regole di comportamento” da imporre alle nuove reclute, ricostruisce la polizia, «gli affiliati avrebbero dovuto possedere la capacità di porsi con autorevolezza, vietando di commettere azioni non rispettose del codice d’onore. Anche il furto di un’auto o in un’abitazione avrebbe ingenerato l’irritazione di “Cosa nostra” che, tramite i suoi affiliati, così come emerso in corso di indagine, si sarebbe attivata per individuarne gli autori ed evitare ulteriori episodi. Allo stesso modo anche l’occupazione abusiva degli immobili sarebbe stata sottoposta all’autorizzazione mafiosa, scegliendo anche gli eventuali beneficiari di fatto».

Nonostante la fortissima pressione del pizzo su tutte le attività economiche della zona di competenza, la polizia lamenta che nessuna delle vittime abbia mai denunciato niente. Lo afferma anche il direttore della Direzione Centrale anticrimine (Dac) della Polizia Francesco Messina, commentando l'operazione di Palermo: «Anche in questo caso, come nell'operazione a Brancaccio (di qualche tempo fa, ndr), non c'è stata collaborazione, c'è un atteggiamento remissivo da parte degli estorti che continuano a non denunciare. Se hai un problema vai dal capo di quello che ti è venuto a chiedere il pizzo, non vai dalle forze dell'ordine. Se fra gli estorti nessuno denuncia c'è un problema, anche sociale, che va affrontato. Ed è su questo che continuiamo ad agire con determinazione perché vogliamo andare oltre il contenimento del fenomeno mafioso. Noi dobbiamo pensare, nel tempo, a una riduzione a fisiologico di questo fenomeno». 

E sempre il direttore del Dac fa una riflessione importante: «Gli arrestati di questa operazione sono, per la maggior parte, soggetti che avevano cariche direttive (nella mafia, dr) già negli anni passati, hanno scontato la loro pena e, scarcerati, sono tornati a fare esattamente quello che facevano prima, forse anche con più importanza. Questo vuol dire che i legami con la struttura mafiosa non vengono recisi dal carcere, che invece è quello che dovrebbe accadere, se non a patto dell'introduzione di un regime speciale. Questo deve far riflettere sull'opportunità di modificare il trattamento carcerario e di consentire addirittura l'abolizione dell'ergastolo ostativo per chi ha fatto parte dell'organizzazione mafiosa».