di Alessandro De Angelis

Solo in Italia il ministro degli Esteri in carica, può essere attaccato dal presidente della Camera (del suo stesso partito e per questioni di partito) mentre è seduto a un vertice internazionale. Solo nei Cinque stelle può essere “processato”, sempre a guerra in corso, il medesimo ministro. E ancora: solo i Cinque stelle, fantastici Re Mida al rovescio riescono a trasformare in farsa tutto ciò che toccano.

Parte col favor delle tenebre questo processo, istruito presso il Consiglio nazionale M5s, come accadeva ai tempi di “quelli della notte” (il Conte 2) con l’idea putiniana di espellere Di Maio per eccesso di atlantismo e lesa maestà. E si conclude con un documento, prolisso nella lunghezza, borbonico nell’eloquio, in cui l’azzegarbugli del popolo, sostanzialmente, gli dà ragione (sulla collocazione internazionale). E neanche lo “sfiducia”, ipotesi anche quella presa in considerazione. Ne critica le critiche e “confida” – proprio così: confida – che la smetta con attacchi lesivi dell’immagine del movimento. Neanche più gli epuratori sono quelli di una volta, con i processi per direttissima, altro che linguaggio da querelante. Il dossier espulsione, in perfetto stile contiano, è rinviato, come Aspi, Alitalia, riforma dei decreti sicurezza nelle lunghe notti di palazzo Chigi, in fondo anche questa è coerenza sia pur privata della vertigine del potere.

Insomma, vince, politicamente, Di Maio, il ragazzo è cresciuto. Che poi, davvero non si capisce chi, tipo Renzi o Calenda, lo attacca perché “ha cambiato idea su tutto”. Fa molto canzone di Antoine “se sei cattivo e vai coi gilet gialli ti tirano le pietre, se sei buono e difendi l’Europa ti tirano le pietre”, che non tiene conto, vivaddio, che nella vita si può evolvere. E, in questa vicenda, parliamoci chiaro, ha scoperchiato il gioco pericoloso sull’Ucraina, costringendo il Movimento a una clamorosa inversione di rotta. Perché, si capisce anche dal prolisso comunicato, qualcosa è successo sulla mozione parlamentare sull’Ucraina se i Cinque stelle (di rito contiano) sono passati, nelle ultime quarantott’ore, dall’intransigenza del “no all’invio delle armi”, alla generica richiesta di un impegno per la “de-escalation”.

È successo che la principale “condizione” posta, ovvero inserire nel testo l’eventualità di un nuovo voto parlamentare in caso di un nuovo invio di armi, è andata a sbattere contro un muro chiamato palazzo Chigi. Perché Draghi mai avrebbe potuto accettare, su una questione così delicata, di tenere il governo sotto scacco delle intemperanze grilline che tanto piacciono all’ambasciatore russo in Italia. Detta in altri termini, con quella frase non ci sarebbe stato più il governo, perché sarebbe entrato in forse uno dei suoi assi portanti: la collocazione internazionale appunto.

E dunque è probabile che nella mozione sarà ribadito l’impegno per la pace e inserito un passaggio che impegna il governo a “tenere informato” il Parlamento, ma non il voto. Nella nota questo passaggio è scomparso anche se si considera “superata” la cornice del “decreto ucraina”. Posizione propedeutica a un ulteriore compromesso, accettabile da tutti, in sede di stesura della risoluzione.

Rispetto alle premesse, è oggettivamente un’inversione radicale. O meglio: un cedimento, anche alle ragioni del ministro degli Esteri. Che, nel momento in cui viene compiuto, viene coperto dalla cortina fumogena di una “censura comportamentale”, forse anche per nascondere l’essenza politica della questione.

Qualche abile spin doctor avrà pensato che, in questo modo, i titoli di questi giorni non sarebbero stati sulla “retromarcia di Conte sulle armi”, ma sul “processo a Di Maio nel Movimento” che dà tanto l’idea di un potere esercitato più che di una linea subita.

È chiaro che non è finita qui. E l’Ucraina è solo il terreno su cui si sta consumando, all’interno del Movimento, una crisi più profonda, complice anche la botta elettorale di domenica scorsa. Crisi che si nutre anche di odi e rivalità personali, in un clima che l’assenza di democrazia, nella discussione e nella decisione, rende ancora più logoro. In attesa che si consumi l’epilogo finale – se sarà un “Che fai, mi cacci?” o un “sai che c’è? Me ne vado – è chiaro che questo quadro di l’implosione ha una serie di conseguenze.

Dà l’idea di un ulteriore “sfarinamento” del quadro politico, di cui fa parte anche l’atteggiamento degli altri. Parliamoci chiaro: non c’è più politica, e tutto viene letto in una dimensione personale per cui la questione sembra riguardare i Cinque stelle, non il governo o l’Italia. I Cinque stelle hanno le loro stravaganze, ma la notizia è anche il silenzio di tutti gli altri, di fronte a uno spettacolo che nulla ha della solennità del momento storico. Non giova al governo la trasformazione del ministro degli Esteri in una sorta di “tecnico” senza partito, al di là delle sue personali capacità, in un momento così delicato.

In altri tempi, su una roba del genere, qualcuno avrebbe richiesto un “chiarimento” di fronte a uno stato di perdurante incertezza. Non è questo il caso, perché c’è uno “stato di necessità”, dentro il quale, all’ombra del vincolo esterno, si tollerano ormai una serie di sgrammaticature, dai ministri che votano contro in cdm ai processi di partito. Si dirà: poco male: l’importante era mettere in cassaforte la risoluzione parlamentare e tenere il minimo sindacale dell’“allineamento” occidentale. Già il fatto che, per un giorno, l’ambasciatore Razov non si spella le mani in un applauso verso i suoi eroi nostrani è un passo avanti.