di Alec Cordolcini

L’oligarca Suleyman Kerimov una volta disse che avrebbe trasformato l’Anzhi Makhachkala nel “nuovo Real Madrid”. Pochi giorni dopo la conquista da parte del “vecchio” Real Madrid della sua 14esima Coppa dei Campioni, all’Anzhi non è stata concessa la licenza di iscrizione alla Football National League 2, il terzo livello del calcio russo, decretandone di fatto la scomparsa dal calcio professionistico. In realtà da tempo Kerimov aveva abbandonato l’Anzhi al proprio destino, dopo avere investito nel triennio 2011-2013 oltre 230 milioni di euro solo per l’acquisto di giocatori, portando all’estremo il concetto di calcio quale strumento politico e di propaganda, visto l’ammontare delle risorse investite in un periodo così ristretto e, soprattutto, in un club privo di storia e tradizione.

L’Anzhi non era paragonabile al Chelsea, al Manchester City o al Paris Saint Germain, tutte società dotate di passato, identità e bacheca (anche internazionale) importanti pure prima di entrare nell’elite milionaria del pallone. L’Anzhi esisteva solo da una quindicina di anni, faceva 300 spettatori di media e proveniva da un grande nulla calcistico circondato da guerra, terrorismo (la repubblica caucasica del Daghestan aveva la più altra percentuale di vittime annua), disoccupazione e povertà. Una decina di anni fa il nuovo El Dorado del pallone sembrava provenire da Est, dove attraverso il calcio emergevano soggetti capaci di mettere sul mappamondo realtà fino a quel momento sconosciute. Dal Tatarstan arrivava il Rubin Kazan, capace di battere il Barcellona in Champions al Camp Nou . Dalla Cecenia emergeva il Terek Grozny, il cui boss Ramzan Kadyrov arrivò a ingaggiare come allenatore Ruud Gullit. Infine c’era l’Anzhi di Kerimov con il suo potenziale di spesa apparentemente illimitato.

Tutto nasceva da una precisa strategia politica di decentralizzazione voluta da Vladimir Putin. Mosca spingeva gli oligarchi – ognuno dei quali possedeva al Cremlino un kyshna (tetto in russo), ovvero un intermediario/lobbista che si muove all’interno di delicati equilibri di potere – a investire nelle zone calde nel paese, facendo circolare una parte dell’enorme ricchezza accumulata. Così una perla apparentemente senza valore (nel linguaggio Kumyk infatti Anzhi significa perla ed era anche l’antico nome della città di Makhachkala) viene trasformata in un all-star team con gli arrivi di Samuel Eto’o, Youri Zirkhov, Willian, Mbark Boussoufa, Balázs Dzsudzsák, Diego Tardelli, Jucilei, Lassana Diarra, Roberto Carlos (prima giocatore, poi direttore tecnico) e, in panchina, Guus Hiddink. Le cifre erano spaventose: Eto’o guadagnava 20 milioni di euro l’anno (all’epoca, il giocatore più pagato al mondo), Hiddink 12 (quando nel 2014 tornò sulla panchina dell’Olanda dovette tagliarsi lo stipendio quasi del 90%), Roberto Carlos 10. Senza considerare i benefit: per fare un esempio, un giocatore di non primissimo livello come Boussoufa si portava a casa 2.5 milioni netti l’anno, era alloggiato in un appartamento da 11mila euro al mese con sauna, piscina e un jet privato per le trasferte in Marocco quando veniva convocato in nazionale. Per il suo compleanno invece Roberto Carlos fu invitato da Kerimov a casa propria, una blindatissima villa a Mosca con “non meno di 15 militari tra addetti alla sorveglianza e guardie del corpo” (così il brasiliano), e gli vennero consegnate le chiavi di una Bugatti Veyron da 2 milioni di euro.

L’Anzhi sembrava Hollywood: alberghi a cinque stelle, limousine, lusso sfrenato, un centro polifunzionale (ricavato fuori Mosca dalla vecchia sede del Saturn, club fallito) da far invidia alle big di Premier League. Il tutto a Mosca, lontano 1600 chilometri da Makhachkala, dove si andava solo per giocare. I giocatori atterravano il venerdì notte, venivano scortati in un campo militare circondato da muretti e metri di filo spinato, e uscivano dal bunker solo per la partita. Poi tornavano a Mosca, perché il Daghestan non era un luogo sicuro, nonostante ufficialmente il direttore sportivo del club German Chistjakov parlasse di spostamenti resi necessari non dalla pericolosità della zona ma dalla carenza di adeguate strutture per gli allenamenti. L’Anzhi teneva moltissimo alla comunicazione e all’immagine, e investiva di conseguenza. Quando la squadra incontrò l’Udinese nella fase a gironi della stagione 2012/13 di Europa League, per la trasferta a Udine invitò 250 ragazzi del settore giovanile del Belluno al Friuli, regalò a ciascuno una maglietta e li invitò a tifare Anzhi. I bambini erano spesso al centro delle campagne promozionali dell’Anzhi, il cui sponsor era una fondazione per l’infanzia. “Chissà se sono gli stessi bambini”, scrisse la giornalista Elena Milashina nel suo Dossier Caucaso, “costretti ad assistere alle fucilazioni in pubblica piazza fatte dalla milizie di Kerimov quando scovano persone che hanno offerto cibo ai combattenti ribelli”.

Nell’agosto 2013, a due anni di distanza dalla prepotente discesa in campo di Kerimov, finì tutto. Nel giro di dieci giorni l’oligarca smantellò tutta la squadra, incassando quasi 100 milioni di euro, dando il benservito (con ricca buonuscita) anche a Hiddink, che aveva portato il club in Europa per la seconda stagione consecutiva. Il suo vice, René Meulensteen, promosso primo allenatore, durò 16 giorni, ma non si trattava di scarsa fiducia o insoddisfazione della dirigenza, quanto di chiusura dei rubinetti. Poco tempo tempo prima infatti Kerimov aveva rotto il cartello tra la Uralkali, la compagnia produttrice di potassio di cui era primo azionista, e la Belaruskali, per un’operazione che gli era costata mezzo miliardo di euro, un mandato di cattura internazionale e le ire di Putin. Nel gennaio 2014 salutarono il club gli ultimi superstiti dello squadrone internazionale allestito, Diarra e Jucilei. A fine stagione l’Anzhi retrocesse in seconda divisione con appena 3 vittorie conquistate e 20 punti totali, la peggior prestazione dell’anno in un campionato europeo. Nello stesso periodo l’Uefa multò la società per violazione delle regole del Fair Play Finanziario. Da quel momento è stata una questione di mera sopravvivenza con l’acqua alla gola. Poco tempo fa le condizioni sempre più gravi a livello economico hanno spinto il club a chiedere aiuto a colui che, assieme a Eto’o, è stato il giocatore simbolo dell’età dell’oro dell’Anzhi, ovvero Roberto Carlos. Attraverso un messaggio trasmesso sui media russi, il brasiliano ha sollecitato l’intervento di investitori per salvare il club. Missione fallita. Quello che una volta era un lussuoso giocattolo è finito tra i rottami.