di Alessandro De Angelis

Che Silvio Berlusconi sia stato un grande esperto di campagne elettorali è ormai negli annali. Come negli annali, qui l’articolo potrebbe avere una lunghezza sterminata, c’è che le sue campagne elettorali si nutrano anche di mistificazioni, tese a costruire, come va di moda dire oggi, un “racconto”, una narrazione, dove il nostro ha sempre la coscienza a posto. Sempre negli annali del berlusconismo, ad esempio è piuttosto abusata la parola “complotto”, con la chiamata in causa, spesso, delle istituzioni nazionali e internazionali. Stavolta la cronaca, di quella che il Cavaliere presenta un po’ pomposamente come l’ennesima discesa in campo, parte dal tentativo di cancellare le impronte digitali sul “Draghicidio”, tirando in ballo, a proposito di istituzioni, il capo dello Stato e lo stesso Draghi.

Fine della premessa. Nello svolgimento di questo capitolo il cronista, interpellando fonti del Quirinale, registra lo “stupore” che questo tentativo ha suscitato in Sergio Mattarella. “Stupore”: parola che, tradotta rispetto al paludato linguaggio delle istituzioni, è sinonimo, nel linguaggio comune, di “irritazione”. Insomma, Mattarella è rimasto molto colpito nel leggere la ricostruzione della crisi, che il Cavaliere ha affidato a una serie di interviste, in particolare a due colloqui con  Stampa e Repubblica. E anche a spin di giornalisti spesso di casa nei suoi salotti televisivi. Berlusconi racconta di aver chiamato, il giorno del voto di fiducia al Senato, prima Mattarella e poi Draghi e “di aver letto a tutti e due il testo della nostra risoluzione”. E prosegue: “Nessuno dei due ha sollevato obiezioni” perché “lì non c’era scritto mandiamo a casa Draghi, ma il contrario”. Ovvero la richiesta di un Draghi bis, cambiando alcuni ministri: “Bastava – prosegue – che Draghi accettasse e sarebbe stato tutto un altro film”. Ma, chiosa, “Draghi ha detto non ne posso più”.

La sintesi, in sostanza, è che Mattarella, secondo il meccanismo del silenzio assenso, non avrebbe avuto obiezioni al Draghi bis, ritenendolo possibile, e che il premier ne aveva piene le scatole. Peccato che Mattarella, cui non fa difetto la memoria, ricorda bene come sia andata la convulsa giornata di martedì, senza dover interpellare i centralinisti del Colle. Ha ben scolpito nella memoria quel primo contatto dopo l’ora di pranzo, quando fu lui, ascoltato l’intervento del capogruppo della Lega Romeo, a cercare i leader del centrodestra. Per capire, dopo un intervento di rottura con la richiesta di un bis, quali fossero le loro reali intenzioni, anche in vista dei conseguenti passi istituzionali da compiere, perché era chiaro da giorni che la caduta del governo Draghi avrebbe portato allo scioglimento. E il telefono ha squillato “libero” senza ottenere una risposta di fronte a un numero (il centralino del Quirinale) al quale, solitamente, se non si riesce a rispondere, si richiama nel giro di pochi minuti. I minuti sono diventati parecchi, fino a quando, è uscito, nel pomeriggio, il comunicato congiunto del centrodestra che traduceva in posizione comune le parole di Romeo. A quel punto è arrivata, al Quirinale, la telefonata di Berlusconi: “Presidente, sono qui con Matteo, volevo dirle che il comunicato è stato già licenziato…”. Poi Salvini che, dopo una ventina di minuti, ha ripetuto le stesse cose ancora più baldanzoso.

È un timing che rovescia la versione del Cavaliere. Per carità: legittima la scelta di tirare giù Draghi, meno quella di presentarsi come anima pia senza responsabilità, nel tentativo di scaricare le conseguenze di quella scelta su altri, con l’Italia che piomba nel caos della crisi senza un governo in carica, la perdita di credibilità internazionale, la Bce che chiude l’ombrello. E anche lo sconcerto nazionale anche di quei mondi imprenditoriali e “moderati” vicini al centrodestra. Sconcerto, registrato nei sondaggi, che rivelano quanto contino le “impronte” lasciate sulla scena del delitto.

Perché è evidente che il Draghi bis non è mai stata un’ipotesi, sondata informalmente ai più alti vertici istituzionali, su cui costruire una via d’uscita. Ma un diktat, su cui si sapeva esserci l’indisponibilità del premier, che aveva incorporata la spallata. Un ricatto, se incrociato con l’impianto del discorso di Draghi che, nel rinnovare il senso di una possibile missione comune, aveva chiamato al rispetto di quei presupposti attorno a cui l’unità nazionale era nata su indicazione del capo dello Stato. Detta in modo tranchant: o ti dimetti, e si fa un bis, senza Speranza e Lamorgese, e come programma prendi il nostro su pace fiscale, cartelle esattoriali, e pure catasto e balneari oppure vai a casa. Che era il vero obiettivo di Salvini, il grande artefice della crisi al quale Berlusconi si è allineato. E nemmeno in questo caso la narrazione da Re sole – “il centrodestra sono io” – riesce ad oscurare l’irreversibile tramonto. In attesa che si ricostruisca il traffico lungo l’utenza telefonica tra il leader leghista e Conte.