di Pietro Salvatori

A Villa Grande Silvio Berlusconi ha squadernato ieri sera una cartuccella con venti slide: “Venti punti per l’Italia, dobbiamo dare le risposte che gli italiani ci chiedono”, ha detto nel corso di uno dei mille vertici che si sono susseguiti nella sua residenza romana, trasformatasi per l’occasione nel quartier generale del centrodestra. Ed è destinata a rimanerlo anche nelle prossime settimane: per fare le liste, decidere le regole d’ingaggio, il perimetro della coalizione, un programma c’è poco più di un mese. La litigiosità che il centrodestra ha dimostrato negli ultimi mesi, dal Quirinale ai pasticci nella gestione di candidati e alleanze nelle ultime due tornate delle amministrative non lascia presagire un percorso lineare.

Il Cavaliere è galvanizzato, ha promesso ai suoi un impegno attivo in campagna elettorale, nei venti punti ha rispolverato tutti i vecchi cavalli di battaglia, dal fisco alla giustizia passando per sburocratizzazione e semplificazione. Matteo Salvini non vuole essere da meno: oggi ha riunito ministri e sottosegretari, nell’ultimo scampolo di legislatura annuncia battaglia sul rinnovo degli sconti carburanti, sul caro bollette e sui crediti d’imposta per le famiglie, per quando sarà al governo ha già promesso la pace fiscale, la “rottamazione di 50 milioni di cartelle esattoriali”.

Già, il governo. Sotto la baldanza di chi si sente la vittoria già in tasca – e non senza qualche ragione – nel centrodestra viaggia carsica una battaglia destinata ad infiammarsi nei prossimi giorni, e non per il caldo, anzi due: da un lato la composizione delle liste e la distribuzione dei collegi elettorali, dall’altra le regole d’ingaggio per chi il giorno dopo le elezioni sarà indicato dalla coalizione come candidato premier.

“Le regole sono chiare, chi ha un voto in più indica il premier”, ha detto Giorgia Meloni un paio di settimane fa, Salvini ha confermato. Ma allora le elezioni erano lontane, le dichiarazioni funzionali a mantenere una pace interna destinata a durare mesi. Oggi che improvvisamente mancano solo due mesi alle urne alle dichiarazioni di facciata si sostituisce un braccio di ferro interno. Meloni rimane ferma sulle dichiarazioni d’intenti degli ultimi mesi, e ci mancherebbe altro: i sondaggi la accreditano di numeri che Lega e Forza Italia si sognano, la sua è una vera e propria ipoteca su Palazzo Chigi. E’ per questo che nei cerchi magici del segretario del Carroccio e del leader azzurro in queste ore si soppesa un altro schema: il premier lo deve indicare chi ha il 50% più 1 dei voti della coalizione. In questo modo Lega, Fi e i centristi del centrodestra si tengono aperta una possibilità concreta: sommando le rispettive percentuali, la possibilità di superare Fdi è concreta (anche se niente affatto certa) e quanto meno la partita rimarrebbe aperta. Un’ipotesi che è ancora nello stadio embrionale, e che è già stata rimandata al mittente dagli ambasciatori di Fratelli d’Italia.

Di contro Meloni punta a fare il pieno nei collegi uninominali. Già nell’ultimo vertice a Villa Grande prima della crisi di governo la posizione della leader della destra era chiara: “La suddivisione va fatta in base alla media delle forze politiche nei sondaggi”. Una regola che le consegnerebbe circa il 50% delle candidature, e che ha mandato in fibrillazione gli alleati. “Non si possono non considerare gli ultimi test nazionali come le Europee, e deve pesare anche la composizione dei gruppi parlamentari uscenti”, le hanno risposto in coro Salvini e Berlusconi. La discussione è agli albori, ma il precipitare degli eventi la renderà il punto centrale del dibattito interno alla coalizione delle prossime settimane.

Il Cavaliere la segue con preoccupazione anche perché i suoi di gruppi rischiano di assottigliarsi, e non di poco. Dopo Mariastella Gelmini – data in direzione di Carlo Calenda, si vocifera con un annuncio a metà della settimana prossima – anche Renato Brunetta ha lasciato il partito. Del governo uscente rimane solo Mara Carfagna, che l’ala delle colombe vorrebbe come frontrunner alle prossime elezioni: “Tajani è già stato testato cinque anni fa, è stato lo stesso Berlusconi a dire che ci ha fatto perdere il 3%”, dicono i suoi sostenitori spiegando che è il profilo giusto per poter intercettare l’elettorato liberale e moderato, non schiacciarsi sul populismo di Salvini e provare a contendere l’elettorato di Azione e Italia viva. I falchi frenano, qualcuno maligna che non si esporrà “perché ha già incassato l’assicurazione di avere sei seggi sicuri per lei e per i suoi”. Lei li smentisce in serata, dice che "quanto accaduto ieri rappresenta una frattura con il mondo di valori nei quali ho sempre creduto che mi impone di prendere le distanze e di avviare una seria riflessione politica", il terzo ministro su tre ad attaccare frontalmente Berlusconi. La slavina iniziata con Gelmini e Brunetta potrebbe nei prossimi giorni anche altri parlamentari. Da Roberto Caon, che già ieri si è espresso in polemica con le decisioni del partito, ai colleghi Baroni, Porchietto, Versace, Mazzetti e Cappellacci. Insomma, se il governo pare sicuro, la strada per arrivarci sembra molto più impervia. E siamo solo all’inizio.