di Alessandro De Angelis

Se Calenda non avesse divulgato la lettera delle sue condizioni per un accordo col Pd un paio di giorni fa, il patto siglato oggi si sarebbe potuto prestare a qualche interpretazione, su chi ha incassato di più. Ma poiché, in sostanza, quella lettera è diventata “l’accordo” si può dire che il leader di Azione ha avuto piena soddisfazione. Quello siglato, dopo lungo e faticoso travaglio, è certamente un qualcosa di più di un “patto elettorale”, perché contiene anche dettagli programmatici, ma al tempo stesso qualcosa di meno di un “patto politico”, perché del patto politico manca innanzitutto la “testa”. Si prevedono cioè due “front-runner”, ma non entrambi non corrono per la coalizione: ognuno corre per il suo partito senza prevedere chi sarà il premier (comune), questione che il centrodestra ha risolto con la regola del “chi arriva primo”.

Insomma, troppo dettagliato per essere un accordo tecnico, troppo all’ingrosso per definire il profilo politico di una coalizione. E se Enrico Letta realizza l’obiettivo prefissato di tenere agganciato Calenda, che pure aveva tentazioni di una corsa solitaria, è anche vero che il prezzo pagato non è banale, sia in termini tecnici sia politici. Il primo prezzo è nel rapporto 70 a 30, nella distribuzione dei collegi, tra due forze, Pd e Azione, che sovrastima Azione rispetto agli attuali rapporti di forza fotografati dai sondaggi. Il secondo è nell’elenco dei veti, umiliante per i destinatari, di quei partiti e partitini che vengono esclusi dalla competizione maggioritaria, da Di Maio a Fratoianni. Gli accordi politici si possono siglare in molti modi, compresa una stretta di mano. La modalità della “lista degli esclusi” è una sorta di “patente” di presentabilità che il segretario del Pd aveva concesso con maggiore generosità.

Proprio perché l’aveva concessa, Letta si trova costretto ad accogliere gli “impresentabili” nelle sue liste, e ci risiamo coi prezzi. Tradotto: Di Maio, che presumibilmente non raggiungerà la soglia del tre per cento nel proporzionale, sarà ospitato come “diritto di tribuna” nel proporzionale del Pd. E così gli altri, se ci saranno. Con un dettaglio, che limita il prezzo pagato. Se Di Maio si attesterà tra l’1 e il 3 per cento, senza superare la soglia, i voti andranno al partito maggiore, cioè al Pd. E ancora: il perimetro, fissato dalle tecnicalità elettorali, è rafforzato da alcuni confini invalicabili, come gli “impianti di rigassificazione”, condizione che rende complicato un accordo a sinistra con Fratoianni e Bonelli che, infatti, chiedono una “verifica”. Per loro vale il discorso di Di Maio, con l’eccezione che, però, possono tentare una corsa solitaria, mettendo assieme tutto quello che c’è di sinistra tra Pd e Cinque stelle in un unico partito, di modo che la soglia resti al 3, e non salga al 10 prevista per le coalizione.

Il terzo tema, vincolante, è l’agenda Draghi, vera cornice politica del documento. Al di là di quanto, sul lungo periodo, si possa sperare nell’effetto Draghi senza Draghi in campo come persona fisica, parlante, calato nell’agone o come prospettiva, perché nulla rende lecito pensare a una sua eventuale disponibilità per il dopo, anzi, anche qui il tema è tutto politico. Quell’agenda, diventata un discrimine simbolico dopo la crisi populista è stata, durante l’esperienza del suo governo, il compromesso possibile per un governo di unità nazionale. Il minimo comune denominatore che tutti potevano accettare, rinunciando ognuno alle proprie bandiere, prima che lega, FI e Cinque stelle sfasciassero anche il minimo comune denominatore. Non è un’agenda di centrosinistra, progressista, di una forza o di un campo di forze che propongono un’autonoma visione e un progetto per il paese, in grado di riconnettersi anche con il popolo smarrito in questi anni.

Anche se quell’agenda dell’orizzonte progressista ha l’ancoraggio europeo, la collocazione internazionale, l’attuazione del Pnrr. C’è chi a destra vuole sfasciarla, e chi, limitandosi a essa, rinuncia all’idea di andare “oltre”, per adeguarla alle idee e al mondo che cambia, financo la tassa sui ricchi proposta da Letta e che sembra archiviata dall’impegno preso con Calenda sull’“invarianza fiscale”. È un'impostazione, uguale e contraria a quella ostinatamente perseguita nella ricerca del campo largo. Il Pd che si “adatta” in nome dell’alleanza da costruire, rinunciando a “fare agenda” in nome di una soggettività politica capace di esprimere (diceva Veltroni al Lingotto) “riformismo e radicalità”, essendo il primo senza il secondo un aggiustamento dell’esistente e la seconda senza il primo una chiacchiera ideologica.

Il rischio di questo accordo è quello di aprire uno spazio a sinistra, di lasciare cioè il disagio e la protesta ad interpreti che, per quanto cotti, possono trovare un contesto di rivitalizzazione più forte delle proprie capacità, nell’Italia della crisi e del 40 per cento di astensione. E di apparire come “l’alleanza degli inclusi” che risponde al disagio con una agenda senza più il titolare, nell’illusione che il riformismo sia un’ortodossia e non una risposta al movimento reale delle cose. È vero: un po’ di collegi sono più contendibili, bene, anzi benissimo, anche grazie alla dinamica del voto utile, ma, attenzione, si vota sui salari. E non sarebbe la prima volta che si scopre quanto gli incazzati sono più dei moderati.