Taipei (foto Depositphotos)

di Lorenzo Santucci

Taiwan è una questione tanto politica quanto soprattutto economica. È politica, dato che rappresenta la linea rossa tracciata dalla Cina e che gli Stati Uniti non devono permettersi di oltrepassare, pena "bruciarsi con il fuoco". La visita della speaker della Camera, Nancy Pelosi, ha alzato come mai da decenni a questa parte il livello di tensione tra le due superpotenze, rendendo concreto uno scontro dalle conseguenze devastanti. Se si è arrivati a questo punto, oltre al voler rimarcare da che parte si posiziona Washington tra democrazie e autoritarismi, la ragione è appunto anche economica. D'altronde, a muovere le nazioni sono da sempre gli interessi e Taipei non fa eccezione, specie nel mondo globalizzato e fragile di oggi. Non a caso, Pechino rappresenta la fetta più grande del commercio taiwanese, pari al 26%, il doppio di quella degli Stati Uniti, secondi in classifica. Seguono Giappone (11%), Unione europea e Hong Kong (8%). Rinunciare all'isola vorrebbe dire, per chiunque, rimanere indietro. Destabilizzarla, significherebbe bloccare il mondo.

Leader indiscussa del mercato dei semiconduttori, Taiwan è un laboratorio di ricerca efficientissimo in grado di partorire nuove idee in ambito biomedico, tecnologico e green che poi, di conseguenza, tutti gli altri Stati assorbono. Iniziamo dal cavallo di battaglia. È notizia di qualche settimana fa la decisione presa dalla Taiwan semiconductor manufacturing company (Tsmc) di iniziare, da qui a tre anni, la produzione di chip a due nanometri. Più veloci del 10-15% e più sostenibili del 25-30% rispetto a quelli a tre nanometri, questi microchip dimostrano come la Tsmc non si accontenta di essere la prima azienda nel campo. L'84% della fabbricazione di quelli più efficienti è opera sua, tanto che due miliardi e mezzo di persone in tutto il mondo utilizzano quotidianamente i suoi prodotti. Più in generale, nella realizzazione di questi beni Taiwan occupa il 53% del settore. Da quanto emerso da un'analisi di Cassa Depositi e Prestiti, inoltre, le fonderie taiwanesi detengono il 65% del mercato. Come se non bastasse, il loro fatturato è in costante crescita. Prendendo in considerazione solo quello della Tsmc, nel secondo semestre di quest'anno è stato registrato un aumento del 43,5% su base annua rispetto al 2021, con un utile netto cresciuto del 76,4%, superando le attese. Mezzi di trasporto (le automobili dipendono per il 60% dai chip), macchinari medici, smartphone (Apple su tutti), mezzi militari: tutto passa dai semiconduttori taiwanesi. Per restare al passo coi tempi e dire la propria nella sfida tecnologica, dunque, è impossibile ignorare Taiwan. Non a caso, nel sottolineare gli interessi che legano Washington a Taipei, Nancy Pelosi non poteva ignorare quelli sui chip.

La Tsmc ha deciso di investire 100 miliardi di dollari nel prossimo triennio per potenziare la sua azione e nei suoi piani rientra anche un impianto da costruire in Arizona: prezzo, 12 miliardi di dollari. Le intenzioni americane non sono da meno, con l'amministrazione Biden che solo pochi giorni fa ha ricevuto il via libera sul CHIPS and Science Act. Un pacchetto da 280 miliardi di dollari, di cui 52 destinati alla produzione interna, con cui la Casa Bianca intende sopperire ai problemi di approvvigionamento degli ultimi tempi, iniziati con la pandemia e acuiti con la guerra in Ucraina. Stessi ragionamenti che interessano Pechino, che nel quattordicesimo piano quinquennale ha introdotto il rafforzamento dell'industria nazionale dei chip, ampiamente finanziati dal Partito Comunista. Se quello che è accaduto con Mosca sull'energia dovesse replicarsi anche con i semiconduttori di Taiwan, il problema sarebbe davvero molto serio. Lo ha confermato anche il chairman della Tsmc, Mark Liu, ipotizzando la realizzazione dell'incubo americano. "Nessuno può controllare Tsmc con la forza. In caso di uso della forza militare o di un'invasione le strutture diventerebbero non operative: sono molto sofisticate e dipendono da una connessione in tempo reale con il mondo esterno, con l'Europa, il Giappone, gli Usa", ha dichiarato alla Cnn. Pechino ne è perfettamente consapevole e una delle prime "contromisure risolute, forti e incisive" adottate per rispondere alla provocazione lanciata da Nancy Pelosi, è stata proprio lo stop all'export verso l'isola di sabbia naturale che serve per il silicio e, quindi, per la produzione di chip. Niente di illegale, fanno sapere dal ministero del Commercio cinese, e neanche l'ultima. Ancor prima che l'aereo di Stato su cui viaggiava la speaker della Camera atterrasse sull'isola, l'importazione di oltre 2mila prodotti alimentari - sui 3.200 acquistati da Pechino - è  stata bloccata.

Ciononostante, Taiwan è tanto di più. Con appena 23 milioni di abitanti (l'1,7% a confronto di quella Cina), il Pil pro capite è superiore di tre volte a quello della media mondiale, arrivando a toccare quota 35mila dollari. Segno di come il presente stia fruttando (bene), mentre per il futuro le prospettive sono delle più rosee. Tolte Israele e Corea, l'altra grande protagonista del mercato dei chip, nessuno investe più di Taipei in ricerca e sviluppo, pari al 3,5% del proprio Pil. Ecco dunque perché l'isola di Formosa rimane un partner commerciale imprescindibile, sebbene finisca sempre più spesso al centro della disputa tra Stati Uniti e Cina. Pechino rivendica la formula di una sola Cina, con Taiwan a farne parte, e Washington non rifiuta il principio ma si limita a difendere la volontà dell'isola. Ciò detto, le tensioni politiche non smorzano gli affari. L'anno scorso, l'export verso la Cina ha compiuto un balzo del 24,8%, con oltre il 40% delle merci - per lo più tecnologiche - che partono da Taipei dirette verso quella che si auto considera la sua madrepatria. Nel complesso, la bilancia commerciale con il mondo è positiva di 60 miliardi di dollari: 287 miliardi quelli spesi per importanti, 347 miliardi quelli incassati per i suoi prodotti sparsi in giro per il pianeta. Questi, come ovvio che sia, viaggiano anche via mare visto che Taipei controlla anche il 10% della flotta commerciale mondiale. Battente bandiera taiwanese ci sono infatti Evergreen, Yang Ming e Wan Hai Lines, tre importanti compagnie di trasporto marittimo. A confermare la potenza di Taiwan sono ovviamente i numeri, visto che interessa quasi un terzo della navigazione globale secondo le stime dell'Australian Strategic Policy Institute. I porti sono infatti l'altro punto di forza dell'isola. Se quello di Taipei è importante, quello di Kaohsiung lo è ancor di più. Muove circa 10 milioni di beni, non proprio roba da poco. Ma nelle intenzioni del governo c'è anche quella che vede l'ampliamento di altri cinque porti - Keelung, Hualien, Taichung, Anping e Su'ao - con l'obiettivo di portare il numero di container aggregato  a 18,6 milioni di Teu. Un investimento da 1,37 miliardi di dollari, capaci di attrarre altri 11 miliardi, che dovrebbero portare entro quattro anni alla creazione di 13 mila posti di lavoro, grazie alle ristrutturazioni green e sostenibili.

Ecco dunque spiegato perché tanto trambusto attorno a una piccola isola del Pacifico. Un Oceano in cui si sta giocando la partita geopolitica del futuro, con la Cina che rivendica la sua sfera di influenza e gli Stati Uniti che cercano di limitarla quanto più possibile, tramite alleanze politiche e militari, oltre ad accordi commerciali. Anche con Taiwan, che subisce gli scossoni conseguenti allo scontro tra Washington e Pechino, in queste ore giunto al suo culmine massimo. Se quello su Taipei non dovesse mai andare oltre le minacce e qualche provocazione, da una parte e dall'altra, forse il motivo è che a nessuna delle due conviene cambiare uno status quo che garantisce affari per entrambe. A salvare Taiwan, potrebbe essere proprio la sua economia.