di Sara Gentile

Ma il Sud, il Mezzogiorno dove è finito? La campagna elettorale procede correndo, imprecando, solfeggiando con livore su spartiti sconnessi e tutti i partiti e i loro leaders cercano accordi, ne rompono altri, concentrati sulla lotteria delle liste, sui collegi appetibili, sui calcoli complicati per una possibile vittoria. Ma il Sud, il Mezzogiorno, la Sicilia e le altre isole sono finiti nel limbo di tutti i Sud del mondo e sembrano sagome lontane, zattere dimenticate. Ed anche sui media, spesso riflesso e partners della politica, in un dannoso rapporto simbiotico, non c’è cenno di questa parte d’Italia come inabissatasi in un mare che inghiotte.

La questione meridionale: una volta era il cuore del dibattito soprattutto a sinistra, ma anche presso il Partito Popolare di Luigi Sturzo la cui anima di impegno sociale era ben radicata. Poi ad un tratto questo tema venne via via accantonato; da parte di alcuni si disse che era datato, che il tempo dei “cahiers des doleances” era finito e bisognava concentrarsi sui problemi e le speranze nazionali, di un paese che dagli anni ’60 del Novecento celebrava il suo miracolo economico, i televisori, i frigoriferi in tutte le case, la gloriosa Fiat 500 alla portata di tutti, la musica rock, la sprovincializzazione, il mito del benessere con l’America in prima fila a mostrare le meraviglie di un nuovo Eldorado.

Ma non era proprio così, il luccichio non era diffuso, non era per tutti, non per tutti i territori e le rispettive classi sociali. Vi erano punti fermi, fatti, analisi che avevano segnato un percorso: il Sud come oggetto di “conquista regia”, come Guido Dorso aveva interpretato il Risorgimento; il Sud di Salvemini soprattutto che al Congresso del PSI nel 1911 aveva davvero posto le basi della “questione meridionale” non come lamentela di un Mezzogiorno che chiedeva indennizzo per i torti subiti, ma come problema nazionale, l’unico terreno sul quale imperniare il riformismo del partito (che egli giunse ad accusare di “deviazione oligarchica”) e su cui costruire uno sviluppo equilibrato per il paese. Non era retorica di un grande dirigente, ma volontà propositiva e realistica rispetto a un Mezzogiorno che se pur timidamente stava iniziando importanti mutamenti: l’immigrazione storica fra fine ’800 e inizi del ’900 verso gli Usa soprattutto, col suo carico di lacerazioni e desertificazione delle campagne era una realtà, ma i migranti lavoravano a un sogno e le loro rimesse potevano innescare un processo virtuoso con l’acquisto delle terre incolte dei grandi proprietari terrieri e quindi il possibile sorgere di una nuova classe contadina non assenteista, ma soggetto promotore di sviluppo. Lo Stato quindi in questa visione, doveva assolvere a un ruolo regolatore e riformatore per agevolare mutamenti importanti.

Tutto questo non è avvenuto e il secondo immediato dopoguerra ripropone i medesimi problemi; registra però una stagione di lotte serrate, feroci, per la terra proprio nel Mezzogiorno e in Sicilia, un incendio che dura anni con l’occupazione delle terre, sfidando sull’aia lo strapotere agrario per la divisione dei prodotti, pagando un prezzo altissimo di repressione e vittime, un movimento guidato dalla sinistra storica PCI e PSI che pongono così le basi per un radicamento importante in questa parte del paese.

L’esito fu purtroppo un magro bottino sfociato nella riforma agraria del 1950 che scardinava alcuni bastioni dell’assenteismo agrario, ma di fatto non spostava l’asse attorno a cui sarebbe ruotata l’economia siciliana e il Mezzogiorno in genere. Il resto è storia più recente, il resto è una forbice che si è allargata con momenti di ripresa, ma non sostanziali e duraturi; l’emigrazione ha mutato luoghi, volti, attori, rimanendo comunque una fuga verso il lavoro che non c’è e i giovani laureati o diplomati scelgono, costretti, di cercare un altrove.

Tutto questo la campagna elettorale in corso condanna al silenzio, al non esserci, salvo forse un giro finale nelle piazze del Sud a sciorinare promesse surreali in raduni surreali per raccogliere i voti che servono. Una campagna elettorale senza idee, proposte, progetto anche minimo, ma solo un unico programma: vincere.

Io credo quindi e lo affermo con forza che il Sud non è una moda da cambiare al battito del mercato, non è una vecchia ballata da sostituire in una malintesa modernità, che la gente non emigra perché ha vocazione nomade e che i Sud del mondo tutti si somigliano e bussano alle nostre porte ogni giorno. Ascoltiamolo questo Sud!