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di Sergio Cofferati

Draghi non è di formazione economica keynesiana, questo si sapeva. E nemmeno sembra conoscere la differenza che c'è (che c'era) tra il sistema delle relazioni sindacali in Italia e il "dialogo sociale europeo": il primo che punta al coinvolgimento e alla responsabilizzazione, l'altro all'informazione (non sempre preventiva), punto. Però è persona che distingue tra "debito buono e debito cattivo", che usa i soldi pubblici senza aggravare le condizioni del bilancio dello Stato, che con il Pnrr ha tradotto in italiano le indicazioni europee di spesa e di innovazione sostenibile. Soprattutto un capo di Governo in grado di farsi ascoltare in Europa per autorevolezza e coerenza, persino di indicare agli altri governi influenti (Francia e Germania) le direzioni da prendere in politica economica e anche in politica estera e della difesa. L'Italia ha avuto la fortuna di avere Draghi nella gestione della crisi pandemica e di quella derivante dalla aggressione russa dell'Ucraina, con le conseguenze economiche, energetiche, alimentari, che ne derivano (e ne deriveranno).

Altrettanto senso di responsabilità non hanno avuto le forze politiche che partecipavano al Governo Draghi. Spesso più impegnate a ricavare una rendita di posizione dalla loro collocazione che non a condividere e sostenere e rafforzare nei territori (Regioni, Città metropolitane, Comuni) le decisioni strategiche e i provvedimenti approvati. Più a distinguersi quotidianamente su questo e quello che a coalizzarsi sulle scelte da assumere. Fino alla tragedia delle dimissioni estive e delle elezioni anticipate (di 6 mesi), fino alla farsa di presentarsi alle urne come gli eredi del Governo Draghi e della sua "Agenda".

Nei mesi precedenti la crisi, non c'è stata quella illuminata supplenza delle forze sociali (come nel 92/93 con Amato e Ciampi) a riempire il vuoto della politica e sostenere un Governo "tecnico" ma determinato e risolutivo. Non sappiamo se per colpa di Draghi o per timore dei cosiddetti corpi intermedi, si è persino assistito a una sorta di presa di distanza neutralista rispetto alle dinamiche politiche, come se fossero indifferenti rispetto al futuro economico e sociale del Paese. Qui si misura una cesura rispetto alla consolidata "responsabilità nazionale" delle forze sociali ed economiche: deciderà la storia se questa cultura dell' "indipendenza" dalla politica è una innovazione necessaria che rafforza le organizzazioni delle imprese e del lavoro oppure il segno del loro declino.

Ora siamo di fronte a scenari politici che non possono se non preoccupare il mondo del lavoro e delle imprese. Prescindiamo un attimo dai capitoli di riforma istituzionale (e costituzionale) che vengono proposti agli elettori (presidenzialismo, federalismo, autonomia differenziale, ecc.), con l'idea che basti un voto popolare a garantire competenza interna e autorevolezza internazionale. Limitiamoci ad analizzare i capitoli dei programmi delle forze politiche in materia di lavoro, tema che tutti gli schieramenti considerano al centro delle scelte economiche e sociali della prossima legislatura.

A leggere i programmi elettorali, al di là delle diverse priorità indicate da ciascuno, emerge fortunatamente l'idea che è necessario mutare il "paradigma" dello sviluppo per superare le crisi in corso e ridurre le diseguaglianze sociali ed economiche che nelle crisi si sono estese. Si parla giustamente di sanità di prossimità, di agricoltura verde, di transizione energetica, di riduzione dei rischi idrogeologici, di trasporti meno inquinanti, di un sistema di istruzione più moderno e inclusivo, di infrastrutture più diffuse, di digitalizzazione, di rigenerazione urbana, efficienza della pubblica amministrazione, efficacia delle istituzioni, come leve per aumentare il benessere e la sua diffusione omogenea nel territorio italiano. Bene, ma chi avvia e garantisce concretamente queste cose? Lo Stato per conto suo? Non è credibile. Le imprese e il mercato che ci sono oggi? Nemmeno. È strano constatare che (a destra come a sinistra) si individuano i bisogni e le priorità e si rimuove l'idea che sia necessaria una politica "macro economica" (e sociale) che aiuti, con la nascita di nuove imprese e nuovo lavoro, a corrispondere con opere e servizi a quei bisogni. Altrimenti cosa significa il "lavoro al centro"?

Nessuno dice (e questa sembra la vera lacuna programmatica dei partiti) che bisogna tornare a una politica di investimenti pubblici mirati e smetterla con la distribuzione di risorse correnti e atomizzate in mille sussidi alle imprese, come se bastasse un po' d'olio negli ingranaggi del mercato per far ripartire economia e lavoro. L'occupazione (questo un secondo deficit culturale dei programmi) non può essere considerata come un effetto derivato delle dinamiche economiche. La piena occupazione deve tornare ad essere obiettivo centrale della conversione del sistema economico e volano della sua crescita verso gli obiettivi di sostenibilità, a partire da una attuazione coerente e seria del Pnrr nelle regioni e nei territori.

È certo importante che tutti i programmi dei partiti insistano sulla necessità di stabilizzare e qualificare un lavoro troppo precario, irregolare e sottopagato ma è difficile credere che senza la piena occupazione (con un rilevante "Esercito Industriale di Riserva") si possano ottenere per legge i miglioramenti qualitativi che tutti auspicano e dare nuova dignità e sicurezza al lavoro. In sintesi, le politiche (economiche e sociali) proposte nei programmi elettorali dei partiti, anche quelle condivisibili, sono politiche di basso profilo, senza il respiro necessario ad affrontare le crisi e le transizioni di cui tutti parlano. È necessario invece un "Piano straordinario del lavoro" per giovani e donne (come accadde con la legge del 1977), perché le attuali "politiche attive del lavoro" tutto sono tranne che attive. Garantire a giovani e donne la piena cittadinanza con un lavoro diffuso e di dignità è l'obiettivo primario da raggiungere per il rilancio sostenibile del Paese: "Whatever it takes", come direbbe Draghi.