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di Mimmo Carratelli

 

Quel mattino di settembre, a Monaco, il cielo era di un azzurro mediterraneo, il sole caldo, i colori più vivi nel villaggio olimpico. Stava nascendo un giorno splendido per i Giochi. 

C'erano gli hippies sulle colline dell'Oberwiesenfeld, attorno allo stadio; l'acqua del lago artificiale era cheta davanti al palcoscenico vuoto creato su una sponda dove ogni sera c'era spettacolo; Mark Spitz aveva dato appuntamento a tutti al Centro stampa per il suo arrivederci, alle nove in punto. 

S'era fatto tardi la sera prima con gli sciabolatori azzurri che avevano preso ai russi la medaglia d'oro, i cugini Montano di Livorno, Rolando Rigoli e Michele Maffei. 
Era stato, il giorno prima, un gran giorno per gli italiani col terzo posto di Mennea sui 200, Dibiasi e Cagnotto primo e terzo nei tuffi, Paola Pigni lanciata verso la medaglia di bronzo dei 1500. E c'era stata la settima medaglia d'oro di Spitz, ed eravamo ancora contenti per Mancinelli e Antonella Ragno. 

Ma la festa doveva essere cancellata. 

Tutto cominciò con un trambusto nell'edificio dove eravamo alloggiati noi giornalisti italiani, vicino al campo di hockey, lontano dal villaggio degli atleti che faceva blocco a sé e bisognava andarci col pullman a fare le interviste, un quarto d'ora di pullman e la noia dei controlli. 

Erano le otto di quella splendida mattina di settembre, il 5 settembre, e fummo svegliati di soprassalto dal tramestio sui pianerottoli, da voci sempre più concitate e infine dai colpi frettolosi ma decisi alle porte. 
Erano i colleghi dei giornali del pomeriggio già al lavoro che ci tiravano giù dal letto. Da dietro la porta la notizia, l'allarme, la sveglia drammatica. "Hanno sparato al villaggio". "Hanno sparato agli israeliani". 

Arrivammo al Centro stampa e la conferenza di Spitz era solo un gran caos. Spitz neanche si vedeva, era circondato da poliziotti. Udimmo appena che diceva: "È una tragedia". Mark Spitz, ventiduenne californiano di origini ebraiche. 
Dunque, avevano sparato al villaggio degli atleti. 

C'erano state velate minacce ai Giochi. Avevano cominciato i contestatori tedeschi: le Olimpiadi sono uno spreco, le olimpiadi non hanno senso in un mondo di guerra. I contestatori del Gruppo di Francoforte di Dieter Bott non s'erano fatti vivi, avevano lasciato perdere che i fasti olimpici fossero "pericolosi anche come rigurgito del passato". 

S'era parlato di attentanti il giorno della inaugurazione, ma quel giorno tutto era filato tranquillo, c'era un grande spiegamento di forze ben mimetizzato. C'era stata una vaga informazione che aveva dato i brividi: dinamitardi, si diceva, avevano operato durante la realizzazione del villaggio olimpico ponendo grosse cariche di esplosivo alla base dei piloni che reggevano la gigantesca tenda acrilica dello stadio. 
Nessuno si aspettava l'attacco al villaggio. 

La tensione dei primi giorni, i timori, le attese vaghe del primo momento che avevano mobilitato tutto un grosso apparato di controllo, di sorveglianza, s'era un po' dileguata. Allo stesso villaggio degli atleti, dove era difficilissimo entrare nei primi giorni anche per coloro che erano muniti di permesso, e bisognava superare un doppio sbarramento di controllo, s'era allentata la sorveglianza. 

Ma c'era chi sapeva del pericolo. Non solo a Damasco e al Cairo, come rivelarono poi i giornali, là si conosceva anche il nome dell'operazione: Biram-Ikrit, i nomi di due villaggi sulla frontiera libano-israeliana da dove gli arabi erano stati cacciati nel 1948. 

Anche in Germania si sapeva. È vero che la polizia tedesca aveva ormai immobilizzato i tupamaros di Andreas Baader e di Ulrike Meinhof e controllava i movimenti di Leila Khaled, la ragazza che aveva tentato di dirottare un Boeing della "El-Al" a Londra e che il 4 agosto era segnalata ad Amsterdam. 

Trentanovemila arabi vivevano in Germania, tra cui tremila profughi palestinesi. In Scandinavia i commandos arabi avevano le loro migliori basi europee. Gli uomini di "Settembre Nero", una delle organizzazioni di resistenza popolare della Palestina, avevano avuto contatti con Andreas Baader. Infiltrazioni arabe clandestine avvenivano in Germania via Copenaghen. 

Arabi avevano lavorato alla costruzione del villaggio olimpico, arabi facevano parte del personale dei Giochi al villaggio. "Conoscono molte lingue, fanno comodo" dichiarò il Comitato organizzatore. 

Si poteva temere un attacco alla squadra israeliana? Certamente. Tutte le precauzioni furono dirette soprattutto a controllare la posta in arrivo agli israeliani nel timore dei pacchi esplosivi. Ma ai primi di agosto i Servizi di controspionaggio israeliani vennero a conoscenza che un commando arabo era penetrato in Germania. 

Pare che un avvertimento anonimo in tal senso giungesse anche alla polizia di Monaco. Eppure nessuno di quelli che dovevano aspettarselo si aspettava l'attacco arabo al villaggio. 

Alle 4,58 del mattino di martedì 5 settembre, quel meraviglioso mattino che si stava aprendo sui Giochi, ogni manchevolezza risulta fatale. Al commando arabo erano stati concessi troppi vantaggi. Tre degli otto terroristi di Monaco, inseriti nella realizzazione e nella gestione del villaggio olimpico, conoscevano alla perfezione i luoghi dell'attentato, i servizi di sorveglianza e l'allentamento della sorveglianza stessa. 

La palazzina degli israeliani al villaggio non era sorvegliata, neanche di notte. Gli arabi conoscevano le abitudini della squadra israeliana e i movimenti degli ottanta guardiani addetti alla sorveglianza notturna di tutto il villaggio degli atleti. 

L'operazione Biram-Ikrit andò a colpo sicuro. 
La drammatica successione dei fatti cominciò alle 4,58 e si concluse alle 0,04 con una esplosione all'aeroporto di Fustenfeldbruck lasciando sul palcoscenico di sangue dei Giochi 15 vittime: nove israeliani, cinque arabi, un tedesco. 

Erano le nove e un quarto e correvamo verso il villaggio degli atleti fra gente che ancora non sapeva nulla. L'ingresso principale del villaggio degli atleti era già bloccato dalla polizia che era giunta sul posto venti minuti dopo l'irruzione degli arabi negli alloggi degli israeliani. 

Nella palazzina bianca al numero 31 della Connollystrasse, una delle strade interne del villaggio recintato, c'erano già un morto e un moribondo. 

Andammo dalla parte del recinto da dove era possibile scorgere la palazzina degli israeliani, vicinissima alla stessa rete di recinzione. Senza sorveglianza, era bastato un salto per penetrare all'interno del villaggio e raggiungere la palazzina in un baleno. 

Pare tuttavia che alcuni terroristi erano addirittura entrati nel villaggio il giorno prima attraverso l'ingresso principale, "legalmente", con tute e sacche da atleti, e nelle sacche portavano i fucili mitragliatori. Essi avevano atteso i compagni nascondendosi nel settore delle squadre arabe. Gli altri li avevano poi raggiunti scavalcando la rete di recinzione (alta due metri). I due gruppi, otto persone in tutto, si erano ritrovati alle 4,58 davanti alla palazzina degli israeliani. 

L'allenatore dei lottatori israeliani Moshe Weinberg era già in piedi. Fu il primo ad essere abbattuto a colpi di mitra. Gli spari svegliarono gli altri israeliani. Gli arabi erano già padroni della palazzina. 

La seconda sventagliata di pallottole si abbatté sul sollevatore di pesi Josef Romano che, dopo Weinberg, cercò di sbarrare il passo agli arabi. Romano aveva una gamba fasciata per una frattura al menisco: fu lasciato morire lentamente. Intanto, Weinberg e Romano avevano evitato che gli arabi piombassero in tutte le stanze senza essere sentiti. 

E così nove israeliani, fra i più pronti, riuscirono a mettersi in salvo: il dirigente Tuvia Sokolski che saltò da una finestra, il lottatore Gad Zobari che sgusciò per i tetti, gli schermidori Weinstein e Alon, Saul Ladany un marciatore mingherlino con una faccia patita che era finito diciannovesimo nella 50 chilometri appena due giorni prima, il capodelegazione Samuel Lalkin, il tiratore Henri Hershkovitz, il medico Weigl e Zelig Shtroch rimasto chiuso in una stanza per più di un'ora senza che gli arabi si accorgessero di lui. 

Nove israeliani restarono in trappola. Gli vennero legati mani e piedi. Erano Yoseg Gottfreud, 40 anni, giudice di lotta libera, rappresentante di commercio, padre di due figlie, originario romeno; Zeev Friedman, 28 anni, sollevatore di pesi, originario di Varsavia; Andrej Spitzer, 27 anni, allenatore di scherma; Mark Slavin, 18 anni, lottatore di greco-romana, nato a Minsk nell'Urss, detto "il campioncino", che la mattina del 5 settembre avrebbe dovuto sostenere il suo primo combattimento e aveva trascorso una notte nervosa; Kehat Shorr, 55 anni, allenatore della squadra di tiro, il più anziano di tutti, che venne svegliato nel mezzo di un gran sogno confuso e si ritrovò con le lacrime agli occhi; David Berger, 28 anni, nativo di Cleveland, lottatore, laureato in legge; Eliezar Halfin, 24 anni, lottatore, nato nell'Urss, che dovava sposarsi dopo i Giochi; Amitzur Shapira, 40 anni, allenatore di atletica leggera, padre di quattro figli. 

La gente aveva ormai saputo. La radio aveva dato notizia della sorpresa del commando arabo. Veniva sempre più gente attorno alla recinzione del villaggio degli atleti. Dal punto sopraelevato dove si vedeva direttamente la palazzina degli israeliani una donna-poliziotto munita di radio teneva i contatti con i terroristi. Era giunto il ministro degli Interni bavarese. 

Alle nove era scaduto il primo ultimatum degli arabi. Pare avessero lasciato cadere un foglietto scritto in tedesco da una delle finestre della palazzina. "Uccideremo tutti gli ostaggi se il governo israeliano non rilascerà i duecento fedayn elencati qui di seguito". Seguivano i nomi. Alle nove non era successo niente. Si trattava di prendere tempo. 

Dall'ingresso principale del villaggio uscivano atleti in gruppo che andavano ad allenarsi come se non fosse successo nulla. 

Il secondo ultimatum venne fissato per mezzogiorno dopo che gli arabi avevano rifiutato un riscatto in danaro per gli ostaggi e ostaggi tedeschi in cambio di quelli israeliani. Alle 10,30 giungeva a Monaco l'ambasciatore israeliano Ben Zorin. Israele respinge l'ultimatum dei terroristi. 

Cominciano le riunioni "al vertice". Il cancelliere Brandt segue la vicenda da Bonn, per telefono. Tel Aviv consiglia di guadagnare tempo. 

Viene escluso un attacco in massa nel villaggio. Tutto deve avvenire fuori dal villaggio degli atleti. I terroristi non abboccano ai troppo scontati trucchi dei poliziotti travestiti da vivandieri che portano cibo. Non c'è possibilità di immettere gas soporifero nelle tubature della palazzina. 

Un poliziotto acrobata salito sul tetto della palazzina deve battere in ritirata. Sui terrazzini della costruzione ogni tanto appaiono gli arabi: sono incappucciati e imbracciano mitra. Ci sono tiratori scelti attorno alla palazzina. 

L'ultimatum viene prorogato alle 15. I terroristi avvertono che se per quell'ora non avranno ricevuto risposta sulla liberazione dei duecento fedayn fucileranno due ostaggi davanti alla palazzina. Alle 15, il ministro degli Interni Genscher ottiene due ore di dilazione. 

Entro le 17 viene concluso un accordo coi terroristi. Essi chiedono un aereo per raggiungere con gli ostaggi Il Cairo. Genscher acconsente a patto che i nove israeliani siano d'accordo e chiede di potere entrare nella palazzina. Trova gli ostaggi esausti, ma ancora in buone condizioni di spirito. 

Da Bonn, Willy Brandt si mette in contatto telefonico con Il Cairo per ottenere dal presidente egiziano Sadat un salvacondotto per gli ostaggi, ma Sadat non si fa trovare. L'ambasciatore Ben Zorin fa sapere che il suo governo è contrario al progetto di far partire gli ostaggi col commando arabo: sottolinea che significherebbe mandare i nove israeliani incontro a un destino tragico. 

I nove israeliani hanno già detto a Genscher: "Consentiamo ad andare al Cairo solo se il nostro governo accetta di liberare i fedayn nel momento stesso in cui saremo in Egitto". 

E Genscher ha dovuto nascondergli che Tel Aviv aveva già deciso che mai avrebbe liberato i duecento fedayn. Non aveva potuto dirglielo, avrebbero sentito anche gli arabi. E sarebbe stata la fine. 

A questo punto, si tenta di guadagnare tempo in cerca di qualche stratagemma. Il commando palestinese fiuta tutte le insidie che i tedeschi predispongono per coglierlo di sorpresa durante il trasferimento dal villaggio olimpico all'aeroporto dove intanto è già pronto l'aereo per Il Cairo. 

Il capo del commando chiede di ispezionare con le autorità tedesche il percorso dalla palazzina allo spiazzo dove sarebbero atterrati due elicotteri che avrebbero trasportato terroristi e ostaggi all'aeroporto. L'arabo fiuta la trappola e pretende che quel tratto per raggiungere gli elicotteri sia compiuto a bordo di un torpedone blindato, non a piedi. Il questore di Monaco Schreiber decide allora di nascondere alcuni uomini nel torpedone, ma al momento del trasferimento il capo del commando pretende che il torpedone venga cambiato. 

È già sera. Si parla di sospendere i Giochi. Si fa largo la soluzione finale: impedire agli arabi di lasciare la Germania con gli ostaggi tentando di salvare "il maggior numero possibile" di israeliani fra gli ostaggi. 

Il dramma sta per compiersi. Il questore Schreiber che ha disposto il grosso delle sue forze al villaggio, dove non si può più agire, è in difficoltà perché si tratta di spostare repentinamente l'azione all'aeroporto di Furstenfeldbruck. E là il questore dispone soltanto di cinque tiratori scelti e di una cinquantina di uomini tutti della polizia. Per ragioni politiche viene scartato l'impiego dell'esercito che ha un accampamento di truppe scelte non lontano dall'aeroporto militare dove viene organizzata la falsa partenza del commando arabo e degli ostaggi. 

Si va sempre più verso una soluzione disperata. Viene scartato un altro stratagemma che prevede di travestire da piloti della Lufthansa alcuni volontari della polizia che avrebbero dovuto vedersela con i terroristi al momento in cui fossero saliti a bordo dell'aereo con gli ostaggi. I volontari, quando vengono messi al corrente della missione che li aspetta, non accettano di prestarsi alla rischiosa operazione. 

Gli elicotteri partono dal villaggio olimpico alle 22,06. Si assiste alla partenza degli arabi e degli ostaggi. Alle 22,24 i due elicotteri appaiono nel cielo dell'aeroporto militare di Furstenfeldbruck. Torniamo al Centro stampa. Pochi colleghi si spingono a Furstenfeldbruck dove è impossibile avvicinarsi. È buio attorno all'aeroporto e si vede poco. 

Quelli che ne torneranno racconteranno però di avere potuto seguire confusamente le ultime fasi della tragica giornata da una collinetta. Noi dipendiamo dall'Ufficio informazioni del ministero degli Interni bavarese. E andiamo incontro alla più grande delusione, al più tragico dei bluff. Telefono al giornale in più concitate riprese (il mio giornale era il "Roma"), mentre già stanno per andare in macchina le prime edizioni. Telefono che gli ostaggi non corrono più pericolo, poi che gli ostaggi sono salvi, quindi che c'è stata una sparatoria all'aeroporto, ma gli israeliani si sono salvati. 

Un'ora dopo queste ottimistiche informazioni sulla scorta di quanto comunicato ufficialmente dal governo bavarese apprendo la tragica verità. A Furstenfeldbruck non ci sono sopravvissuti tra gli israeliani, cinque arabi sono rimasti uccisi, anche un tiratore tedesco è morto. 

Faccio appena in tempo a richiamare il giornale. Il "Roma" chiude la prima edizione più tardi degli altri giornali. Ho il tempo di dettare "a braccio" trecento righe sulla vera conclusione dell'operazione all'aeroporto. "Tutti morti" è il titolo già nella prima edizione. Gli altri giornali italiani, avendo chiuso la prima edizione in anticipo sull'orario del "Roma", riportano la prima ottimistica versione: "Tutti salvi". 

Ecco la ricostruzione della tragica serata all'aeroporto di Monaco di Baviera. Alle 22,26 i due elicotteri con gli otto terroristi e i nove ostaggi israeliani atterrano a Furstenfeldbruck. I proiettori illuminano il Boeing che attende sulla pista. Le autorità tedesche hanno deciso di impedire ad ogni costo la partenza degli arabi con gli ostaggi. Ci sono i tiratori scelti, ma neppure in numero sufficiente: forse, soltanto cinque. 

L'ordine è di aprire il fuoco nell'istante in cui essi ritengono di poter abbattere il maggior numero di arabi. Le probabilità di mettere fuori combattimento tutti gli otto terroristi non sono elevate, diciamo che sono minime. Intanto, come già detto, si parte da questa differenza: cinque tiratori, otto avversari da uccidere. Sempre che essi si espongano a fare da bersaglio. 

Sono le 22,40. I due elicotteri sono sulla pista a un centinaio di metri dal Boeing vuoto (probabilmente con i serbatoi di carburante a secco). Il capo dei palestinesi e un compagno balzano giù dagli elicotteri. Altri due arabi saltano giù con i quattro piloti degli elicotteri che vengono fatti sedere con le mani sulla testa accanto ai carrelli. 

A bordo dei due velivoli restano: un arabo e cinque israeliani sul primo elicottero, un arabo e quattro israeliani sul secondo. Il capo dei palestinesi e il compagno che l'ha seguito, tenendo una distanza da lui di una ventina di metri, si dirigono verso il Boeing. Salgono a bordo, vi si intrattengono circa un quarto d'ora per controllare che tutto sia a posto. 

Alle 22,25 i due palestinesi sono nuovamente sulla pista e si avviano verso gli elicotteri. E a questo punto un colpo echeggia secco nella notte. Uno dei due palestinesi che facevano la guardia ai piloti degli elicotteri accucciati accanto ai carrelli si abbatte al suolo, fulminato. Risuonano simultaneamente altri quattro colpi. I tiratori scelti hanno aperto il fuoco. Anche l'altro arabo di guardia ai piloti degli elicotteri stramazza a terra. I piloti possono fuggire. Viene colpito anche l'arabo che aveva accompagnato il capo nella ispezione al Boeing. Il capo, fuggendo a zig-zag, riesce a raggiungere incolume uno degli elicotteri, protetto nello stesso tempo dal fuoco dei fucili mitragliatori dei quattro palestinesi rimasti a bordo degli elicotteri, di guardia agli ostaggi, e che si sono messi subito a sparare. Un poliziotto tedesco rimane ucciso mentre la sparatoria è al culmine. 

L'aeroporto piomba nel buio. I terroristi hanno mirato ai potenti proiettori che, illuminando la pista, li lasciavano allo scoperto di fronte al buio dietro il quale si celavano i tiratori scelti. C'è una pausa nello scambio dei colpi. Viene intimato ai terroristi di arrendersi. Non c'è alcuna risposta. 

Un silenzio impressionante grava sull'aeroporto. Cinque palestinesi sono ancora in vita. Ma sono ancora in vita gli ostaggi che hanno le mani e i piedi legati? Quattro tiratori scelti aspettano di aprire nuovamente il fuoco. Forse le autorità tedesche ritengono di avere la partita in pugno. E così nasce la voce che gli ostaggi sono salvi. Ma a Furstenfeldbruck c'è solo una pausa prima della strage. E, forse, la gran parte degli ostaggi è già senza vita raggiunta dai proiettili vaganti o forse uccisa dagli stessi arabi. 

C'è ancora qualche sparo isolato, nella notte all'aeroporto. Poi uno scambio di colpi più fitto. E d'un tratto un'esplosione. Uno degli elicotteri salta in aria. Chi l'ha colpito? Un proiettile dei tiratori scelti? Una granata dei terroristi? Un colpo di fucile mitragliatore degli arabi? Non si saprà mai, benché successivamente le autorità tedesche non escluderanno che, nella sparatoria, possa essere stato il colpo di un tiratore scelto a provocare lo scoppio dell'elicottero. 

Per i nove ostaggi israeliani non c'è più speranza. Cinque, vivi o già morti?, vengono trucidati dall'esplosione dell'elicottero: chi è scampato agli spari e agli arabi muore nello scoppio. Gli altri quattro, sul secondo elicottero, sono trafitti dalle pallottole degli arabi, degli stessi tedeschi forse. 

Nell'ultima sparatoria muoiono altri due arabi. Un altro arabo viene catturato quando la battaglia ha termine e sono le 0,04. Gli ultimi due palestinesi vengono acciuffati più tardi. 

Il bilancio della strage all'aeroporto è di 15 vittime: i nove ostaggi israeliani, cinque arabi, un tedesco. Ma il totale dei morti a Monaco fu di 17 contando i due israeliani uccisi al villaggio. 

Tre palestinesi sono in mano alla polizia bavarese. Sono i soli superstiti di Furstenfeldbruck. Hanno dai venti ai ventidue anni. Si chiamano Ibrahim Badran, il più giovane; Samer Abdullah, il capo; Kadir el Dnawy. Vengono dirottati in tre prigioni diverse della Baviera: a Straubin, Bernau e Landsberg. 

Le Olimpiadi osservano un giorno di lutto. Poi le gare riprendono. Due atlete israeliane alloggiando nel settore femminile, lontano dalla palazzina di Connollystrasse, sono anch'esse tra i superstiti della squadra di Tel Aviv: Ester Shahamarov, centometrista, e Shlomit Nir, nuotatrice. 

Quando i Giochi riprendono, il 7 settembre, la corsia di Ester Shahamarov per i 100 metri a ostacoli è vuota. Gli israeliani, i superstiti con le bare delle undici vittime, hanno già lasciato Monaco dopo il pomeriggio greve della cerimonia funebre nel grande stadio silenziosamente affollato. 

Il giorno 8 settembre, mentre i Giochi sono ormai ripresi, ventiquattro aerei israeliani bombardano sette aree siriane e tre libanesi nella stessa ora in cui a Tel Aviv vengono inumati i corpi degli israeliani uccisi a Monaco. Oltre trenta sono i morti dell'incursione aerea israeliana. 

Il 15 settembre l'Organizzazione per la liberazione della Palestina, alla cui testa è il leader di "Al Fatah" Yasser Arafat, dissocia ogni responsabilità dai terroristi di Monaco appartenenti all'organizzazione "Settembre Nero". 

Il giorno 29 ottobre, tre guerriglieri di "Settembre Nero" dirottano un aereo della Lufthansa partito da Beirut per Istanbul con venti persone a bordo chiedendo in cambio il rilascio dei tre fedayn catturati a Monaco. L'aereo sorvola Monaco: lo spiegamento di polizia consiglia i dirottatori ad allontanarsi. L'aereo atterra a Zagabria. 

L'aereo salterà in aria, con i venti passeggeri, se i tre fedayn non saranno liberati: questo è l'ultimatum. I tre prigionieri palestinesi della strage di settembre, liberati dal governo tedesco che non ha voluto correre il rischio di un'altra carneficina, raggiungono Zagabria con un velivolo messo a disposizione dal governo federale bavarese. 

L'aereo della Lufthansa con i venti passeggeri, i tre guerriglieri dirottatori e i tre fedayn liberati giunti a Zagabria lascia l'aeroporto croato diretto a Tripoli. Qui il Boeing della Lufthansa conclude il suo volo drammatico. 

Questa volta non ci sono vittime. Ibrahim Badran, Samer Abdullah e Kadir el Dnawy sono liberi.Quel mattino di settembre, a Monaco, il cielo era di un azzurro mediterraneo, il sole caldo, i colori più vivi nel villaggio olimpico. Stava nascendo un giorno splendido per i Giochi. 

C'erano gli hippies sulle colline dell'Oberwiesenfeld, attorno allo stadio; l'acqua del lago artificiale era cheta davanti al palcoscenico vuoto creato su una sponda dove ogni sera c'era spettacolo; Mark Spitz aveva dato appuntamento a tutti al Centro stampa per il suo arrivederci, alle nove in punto. 

S'era fatto tardi la sera prima con gli sciabolatori azzurri che avevano preso ai russi la medaglia d'oro, i cugini Montano di Livorno, Rolando Rigoli e Michele Maffei. 
Era stato, il giorno prima, un gran giorno per gli italiani col terzo posto di Mennea sui 200, Dibiasi e Cagnotto primo e terzo nei tuffi, Paola Pigni lanciata verso la medaglia di bronzo dei 1500. E c'era stata la settima medaglia d'oro di Spitz, ed eravamo ancora contenti per Mancinelli e Antonella Ragno. 

Ma la festa doveva essere cancellata. 

Tutto cominciò con un trambusto nell'edificio dove eravamo alloggiati noi giornalisti italiani, vicino al campo di hockey, lontano dal villaggio degli atleti che faceva blocco a sé e bisognava andarci col pullman a fare le interviste, un quarto d'ora di pullman e la noia dei controlli. 

Erano le otto di quella splendida mattina di settembre, il 5 settembre, e fummo svegliati di soprassalto dal tramestio sui pianerottoli, da voci sempre più concitate e infine dai colpi frettolosi ma decisi alle porte. 
Erano i colleghi dei giornali del pomeriggio già al lavoro che ci tiravano giù dal letto. Da dietro la porta la notizia, l'allarme, la sveglia drammatica. "Hanno sparato al villaggio". "Hanno sparato agli israeliani". 

Arrivammo al Centro stampa e la conferenza di Spitz era solo un gran caos. Spitz neanche si vedeva, era circondato da poliziotti. Udimmo appena che diceva: "È una tragedia". Mark Spitz, ventiduenne californiano di origini ebraiche. 
Dunque, avevano sparato al villaggio degli atleti. 

C'erano state velate minacce ai Giochi. Avevano cominciato i contestatori tedeschi: le Olimpiadi sono uno spreco, le olimpiadi non hanno senso in un mondo di guerra. I contestatori del Gruppo di Francoforte di Dieter Bott non s'erano fatti vivi, avevano lasciato perdere che i fasti olimpici fossero "pericolosi anche come rigurgito del passato". 

S'era parlato di attentanti il giorno della inaugurazione, ma quel giorno tutto era filato tranquillo, c'era un grande spiegamento di forze ben mimetizzato. C'era stata una vaga informazione che aveva dato i brividi: dinamitardi, si diceva, avevano operato durante la realizzazione del villaggio olimpico ponendo grosse cariche di esplosivo alla base dei piloni che reggevano la gigantesca tenda acrilica dello stadio. 
Nessuno si aspettava l'attacco al villaggio. 

La tensione dei primi giorni, i timori, le attese vaghe del primo momento che avevano mobilitato tutto un grosso apparato di controllo, di sorveglianza, s'era un po' dileguata. Allo stesso villaggio degli atleti, dove era difficilissimo entrare nei primi giorni anche per coloro che erano muniti di permesso, e bisognava superare un doppio sbarramento di controllo, s'era allentata la sorveglianza. 

Ma c'era chi sapeva del pericolo. Non solo a Damasco e al Cairo, come rivelarono poi i giornali, là si conosceva anche il nome dell'operazione: Biram-Ikrit, i nomi di due villaggi sulla frontiera libano-israeliana da dove gli arabi erano stati cacciati nel 1948. 

Anche in Germania si sapeva. È vero che la polizia tedesca aveva ormai immobilizzato i tupamaros di Andreas Baader e di Ulrike Meinhof e controllava i movimenti di Leila Khaled, la ragazza che aveva tentato di dirottare un Boeing della "El-Al" a Londra e che il 4 agosto era segnalata ad Amsterdam. 

Trentanovemila arabi vivevano in Germania, tra cui tremila profughi palestinesi. In Scandinavia i commandos arabi avevano le loro migliori basi europee. Gli uomini di "Settembre Nero", una delle organizzazioni di resistenza popolare della Palestina, avevano avuto contatti con Andreas Baader. Infiltrazioni arabe clandestine avvenivano in Germania via Copenaghen. 

Arabi avevano lavorato alla costruzione del villaggio olimpico, arabi facevano parte del personale dei Giochi al villaggio. "Conoscono molte lingue, fanno comodo" dichiarò il Comitato organizzatore. 

Si poteva temere un attacco alla squadra israeliana? Certamente. Tutte le precauzioni furono dirette soprattutto a controllare la posta in arrivo agli israeliani nel timore dei pacchi esplosivi. Ma ai primi di agosto i Servizi di controspionaggio israeliani vennero a conoscenza che un commando arabo era penetrato in Germania. 

Pare che un avvertimento anonimo in tal senso giungesse anche alla polizia di Monaco. Eppure nessuno di quelli che dovevano aspettarselo si aspettava l'attacco arabo al villaggio. 

Alle 4,58 del mattino di martedì 5 settembre, quel meraviglioso mattino che si stava aprendo sui Giochi, ogni manchevolezza risulta fatale. Al commando arabo erano stati concessi troppi vantaggi. Tre degli otto terroristi di Monaco, inseriti nella realizzazione e nella gestione del villaggio olimpico, conoscevano alla perfezione i luoghi dell'attentato, i servizi di sorveglianza e l'allentamento della sorveglianza stessa. 

La palazzina degli israeliani al villaggio non era sorvegliata, neanche di notte. Gli arabi conoscevano le abitudini della squadra israeliana e i movimenti degli ottanta guardiani addetti alla sorveglianza notturna di tutto il villaggio degli atleti. 

L'operazione Biram-Ikrit andò a colpo sicuro. 
La drammatica successione dei fatti cominciò alle 4,58 e si concluse alle 0,04 con una esplosione all'aeroporto di Fustenfeldbruck lasciando sul palcoscenico di sangue dei Giochi 15 vittime: nove israeliani, cinque arabi, un tedesco. 

Erano le nove e un quarto e correvamo verso il villaggio degli atleti fra gente che ancora non sapeva nulla. L'ingresso principale del villaggio degli atleti era già bloccato dalla polizia che era giunta sul posto venti minuti dopo l'irruzione degli arabi negli alloggi degli israeliani. 

Nella palazzina bianca al numero 31 della Connollystrasse, una delle strade interne del villaggio recintato, c'erano già un morto e un moribondo. 

Andammo dalla parte del recinto da dove era possibile scorgere la palazzina degli israeliani, vicinissima alla stessa rete di recinzione. Senza sorveglianza, era bastato un salto per penetrare all'interno del villaggio e raggiungere la palazzina in un baleno. 

Pare tuttavia che alcuni terroristi erano addirittura entrati nel villaggio il giorno prima attraverso l'ingresso principale, "legalmente", con tute e sacche da atleti, e nelle sacche portavano i fucili mitragliatori. Essi avevano atteso i compagni nascondendosi nel settore delle squadre arabe. Gli altri li avevano poi raggiunti scavalcando la rete di recinzione (alta due metri). I due gruppi, otto persone in tutto, si erano ritrovati alle 4,58 davanti alla palazzina degli israeliani. 

L'allenatore dei lottatori israeliani Moshe Weinberg era già in piedi. Fu il primo ad essere abbattuto a colpi di mitra. Gli spari svegliarono gli altri israeliani. Gli arabi erano già padroni della palazzina. 

La seconda sventagliata di pallottole si abbatté sul sollevatore di pesi Josef Romano che, dopo Weinberg, cercò di sbarrare il passo agli arabi. Romano aveva una gamba fasciata per una frattura al menisco: fu lasciato morire lentamente. Intanto, Weinberg e Romano avevano evitato che gli arabi piombassero in tutte le stanze senza essere sentiti. 

E così nove israeliani, fra i più pronti, riuscirono a mettersi in salvo: il dirigente Tuvia Sokolski che saltò da una finestra, il lottatore Gad Zobari che sgusciò per i tetti, gli schermidori Weinstein e Alon, Saul Ladany un marciatore mingherlino con una faccia patita che era finito diciannovesimo nella 50 chilometri appena due giorni prima, il capodelegazione Samuel Lalkin, il tiratore Henri Hershkovitz, il medico Weigl e Zelig Shtroch rimasto chiuso in una stanza per più di un'ora senza che gli arabi si accorgessero di lui. 

Nove israeliani restarono in trappola. Gli vennero legati mani e piedi. Erano Yoseg Gottfreud, 40 anni, giudice di lotta libera, rappresentante di commercio, padre di due figlie, originario romeno; Zeev Friedman, 28 anni, sollevatore di pesi, originario di Varsavia; Andrej Spitzer, 27 anni, allenatore di scherma; Mark Slavin, 18 anni, lottatore di greco-romana, nato a Minsk nell'Urss, detto "il campioncino", che la mattina del 5 settembre avrebbe dovuto sostenere il suo primo combattimento e aveva trascorso una notte nervosa; Kehat Shorr, 55 anni, allenatore della squadra di tiro, il più anziano di tutti, che venne svegliato nel mezzo di un gran sogno confuso e si ritrovò con le lacrime agli occhi; David Berger, 28 anni, nativo di Cleveland, lottatore, laureato in legge; Eliezar Halfin, 24 anni, lottatore, nato nell'Urss, che dovava sposarsi dopo i Giochi; Amitzur Shapira, 40 anni, allenatore di atletica leggera, padre di quattro figli. 

La gente aveva ormai saputo. La radio aveva dato notizia della sorpresa del commando arabo. Veniva sempre più gente attorno alla recinzione del villaggio degli atleti. Dal punto sopraelevato dove si vedeva direttamente la palazzina degli israeliani una donna-poliziotto munita di radio teneva i contatti con i terroristi. Era giunto il ministro degli Interni bavarese. 

Alle nove era scaduto il primo ultimatum degli arabi. Pare avessero lasciato cadere un foglietto scritto in tedesco da una delle finestre della palazzina. "Uccideremo tutti gli ostaggi se il governo israeliano non rilascerà i duecento fedayn elencati qui di seguito". Seguivano i nomi. Alle nove non era successo niente. Si trattava di prendere tempo. 

Dall'ingresso principale del villaggio uscivano atleti in gruppo che andavano ad allenarsi come se non fosse successo nulla. 

Il secondo ultimatum venne fissato per mezzogiorno dopo che gli arabi avevano rifiutato un riscatto in danaro per gli ostaggi e ostaggi tedeschi in cambio di quelli israeliani. Alle 10,30 giungeva a Monaco l'ambasciatore israeliano Ben Zorin. Israele respinge l'ultimatum dei terroristi. 

Cominciano le riunioni "al vertice". Il cancelliere Brandt segue la vicenda da Bonn, per telefono. Tel Aviv consiglia di guadagnare tempo. 

Viene escluso un attacco in massa nel villaggio. Tutto deve avvenire fuori dal villaggio degli atleti. I terroristi non abboccano ai troppo scontati trucchi dei poliziotti travestiti da vivandieri che portano cibo. Non c'è possibilità di immettere gas soporifero nelle tubature della palazzina. 

Un poliziotto acrobata salito sul tetto della palazzina deve battere in ritirata. Sui terrazzini della costruzione ogni tanto appaiono gli arabi: sono incappucciati e imbracciano mitra. Ci sono tiratori scelti attorno alla palazzina. 

L'ultimatum viene prorogato alle 15. I terroristi avvertono che se per quell'ora non avranno ricevuto risposta sulla liberazione dei duecento fedayn fucileranno due ostaggi davanti alla palazzina. Alle 15, il ministro degli Interni Genscher ottiene due ore di dilazione. 

Entro le 17 viene concluso un accordo coi terroristi. Essi chiedono un aereo per raggiungere con gli ostaggi Il Cairo. Genscher acconsente a patto che i nove israeliani siano d'accordo e chiede di potere entrare nella palazzina. Trova gli ostaggi esausti, ma ancora in buone condizioni di spirito. 

Da Bonn, Willy Brandt si mette in contatto telefonico con Il Cairo per ottenere dal presidente egiziano Sadat un salvacondotto per gli ostaggi, ma Sadat non si fa trovare. L'ambasciatore Ben Zorin fa sapere che il suo governo è contrario al progetto di far partire gli ostaggi col commando arabo: sottolinea che significherebbe mandare i nove israeliani incontro a un destino tragico. 

I nove israeliani hanno già detto a Genscher: "Consentiamo ad andare al Cairo solo se il nostro governo accetta di liberare i fedayn nel momento stesso in cui saremo in Egitto". 

E Genscher ha dovuto nascondergli che Tel Aviv aveva già deciso che mai avrebbe liberato i duecento fedayn. Non aveva potuto dirglielo, avrebbero sentito anche gli arabi. E sarebbe stata la fine. 

A questo punto, si tenta di guadagnare tempo in cerca di qualche stratagemma. Il commando palestinese fiuta tutte le insidie che i tedeschi predispongono per coglierlo di sorpresa durante il trasferimento dal villaggio olimpico all'aeroporto dove intanto è già pronto l'aereo per Il Cairo. 

Il capo del commando chiede di ispezionare con le autorità tedesche il percorso dalla palazzina allo spiazzo dove sarebbero atterrati due elicotteri che avrebbero trasportato terroristi e ostaggi all'aeroporto. L'arabo fiuta la trappola e pretende che quel tratto per raggiungere gli elicotteri sia compiuto a bordo di un torpedone blindato, non a piedi. Il questore di Monaco Schreiber decide allora di nascondere alcuni uomini nel torpedone, ma al momento del trasferimento il capo del commando pretende che il torpedone venga cambiato. 

È già sera. Si parla di sospendere i Giochi. Si fa largo la soluzione finale: impedire agli arabi di lasciare la Germania con gli ostaggi tentando di salvare "il maggior numero possibile" di israeliani fra gli ostaggi. 

Il dramma sta per compiersi. Il questore Schreiber che ha disposto il grosso delle sue forze al villaggio, dove non si può più agire, è in difficoltà perché si tratta di spostare repentinamente l'azione all'aeroporto di Furstenfeldbruck. E là il questore dispone soltanto di cinque tiratori scelti e di una cinquantina di uomini tutti della polizia. Per ragioni politiche viene scartato l'impiego dell'esercito che ha un accampamento di truppe scelte non lontano dall'aeroporto militare dove viene organizzata la falsa partenza del commando arabo e degli ostaggi. 

Si va sempre più verso una soluzione disperata. Viene scartato un altro stratagemma che prevede di travestire da piloti della Lufthansa alcuni volontari della polizia che avrebbero dovuto vedersela con i terroristi al momento in cui fossero saliti a bordo dell'aereo con gli ostaggi. I volontari, quando vengono messi al corrente della missione che li aspetta, non accettano di prestarsi alla rischiosa operazione. 

Gli elicotteri partono dal villaggio olimpico alle 22,06. Si assiste alla partenza degli arabi e degli ostaggi. Alle 22,24 i due elicotteri appaiono nel cielo dell'aeroporto militare di Furstenfeldbruck. Torniamo al Centro stampa. Pochi colleghi si spingono a Furstenfeldbruck dove è impossibile avvicinarsi. È buio attorno all'aeroporto e si vede poco. 

Quelli che ne torneranno racconteranno però di avere potuto seguire confusamente le ultime fasi della tragica giornata da una collinetta. Noi dipendiamo dall'Ufficio informazioni del ministero degli Interni bavarese. E andiamo incontro alla più grande delusione, al più tragico dei bluff. Telefono al giornale in più concitate riprese (il mio giornale era il "Roma"), mentre già stanno per andare in macchina le prime edizioni. Telefono che gli ostaggi non corrono più pericolo, poi che gli ostaggi sono salvi, quindi che c'è stata una sparatoria all'aeroporto, ma gli israeliani si sono salvati. 

Un'ora dopo queste ottimistiche informazioni sulla scorta di quanto comunicato ufficialmente dal governo bavarese apprendo la tragica verità. A Furstenfeldbruck non ci sono sopravvissuti tra gli israeliani, cinque arabi sono rimasti uccisi, anche un tiratore tedesco è morto. 

Faccio appena in tempo a richiamare il giornale. Il "Roma" chiude la prima edizione più tardi degli altri giornali. Ho il tempo di dettare "a braccio" trecento righe sulla vera conclusione dell'operazione all'aeroporto. "Tutti morti" è il titolo già nella prima edizione. Gli altri giornali italiani, avendo chiuso la prima edizione in anticipo sull'orario del "Roma", riportano la prima ottimistica versione: "Tutti salvi". 

Ecco la ricostruzione della tragica serata all'aeroporto di Monaco di Baviera. Alle 22,26 i due elicotteri con gli otto terroristi e i nove ostaggi israeliani atterrano a Furstenfeldbruck. I proiettori illuminano il Boeing che attende sulla pista. Le autorità tedesche hanno deciso di impedire ad ogni costo la partenza degli arabi con gli ostaggi. Ci sono i tiratori scelti, ma neppure in numero sufficiente: forse, soltanto cinque. 

L'ordine è di aprire il fuoco nell'istante in cui essi ritengono di poter abbattere il maggior numero di arabi. Le probabilità di mettere fuori combattimento tutti gli otto terroristi non sono elevate, diciamo che sono minime. Intanto, come già detto, si parte da questa differenza: cinque tiratori, otto avversari da uccidere. Sempre che essi si espongano a fare da bersaglio. 

Sono le 22,40. I due elicotteri sono sulla pista a un centinaio di metri dal Boeing vuoto (probabilmente con i serbatoi di carburante a secco). Il capo dei palestinesi e un compagno balzano giù dagli elicotteri. Altri due arabi saltano giù con i quattro piloti degli elicotteri che vengono fatti sedere con le mani sulla testa accanto ai carrelli. 

A bordo dei due velivoli restano: un arabo e cinque israeliani sul primo elicottero, un arabo e quattro israeliani sul secondo. Il capo dei palestinesi e il compagno che l'ha seguito, tenendo una distanza da lui di una ventina di metri, si dirigono verso il Boeing. Salgono a bordo, vi si intrattengono circa un quarto d'ora per controllare che tutto sia a posto. 

Alle 22,25 i due palestinesi sono nuovamente sulla pista e si avviano verso gli elicotteri. E a questo punto un colpo echeggia secco nella notte. Uno dei due palestinesi che facevano la guardia ai piloti degli elicotteri accucciati accanto ai carrelli si abbatte al suolo, fulminato. Risuonano simultaneamente altri quattro colpi. I tiratori scelti hanno aperto il fuoco. Anche l'altro arabo di guardia ai piloti degli elicotteri stramazza a terra. I piloti possono fuggire. Viene colpito anche l'arabo che aveva accompagnato il capo nella ispezione al Boeing. Il capo, fuggendo a zig-zag, riesce a raggiungere incolume uno degli elicotteri, protetto nello stesso tempo dal fuoco dei fucili mitragliatori dei quattro palestinesi rimasti a bordo degli elicotteri, di guardia agli ostaggi, e che si sono messi subito a sparare. Un poliziotto tedesco rimane ucciso mentre la sparatoria è al culmine. 

L'aeroporto piomba nel buio. I terroristi hanno mirato ai potenti proiettori che, illuminando la pista, li lasciavano allo scoperto di fronte al buio dietro il quale si celavano i tiratori scelti. C'è una pausa nello scambio dei colpi. Viene intimato ai terroristi di arrendersi. Non c'è alcuna risposta. 

Un silenzio impressionante grava sull'aeroporto. Cinque palestinesi sono ancora in vita. Ma sono ancora in vita gli ostaggi che hanno le mani e i piedi legati? Quattro tiratori scelti aspettano di aprire nuovamente il fuoco. Forse le autorità tedesche ritengono di avere la partita in pugno. E così nasce la voce che gli ostaggi sono salvi. Ma a Furstenfeldbruck c'è solo una pausa prima della strage. E, forse, la gran parte degli ostaggi è già senza vita raggiunta dai proiettili vaganti o forse uccisa dagli stessi arabi. 

C'è ancora qualche sparo isolato, nella notte all'aeroporto. Poi uno scambio di colpi più fitto. E d'un tratto un'esplosione. Uno degli elicotteri salta in aria. Chi l'ha colpito? Un proiettile dei tiratori scelti? Una granata dei terroristi? Un colpo di fucile mitragliatore degli arabi? Non si saprà mai, benché successivamente le autorità tedesche non escluderanno che, nella sparatoria, possa essere stato il colpo di un tiratore scelto a provocare lo scoppio dell'elicottero. 

Per i nove ostaggi israeliani non c'è più speranza. Cinque, vivi o già morti?, vengono trucidati dall'esplosione dell'elicottero: chi è scampato agli spari e agli arabi muore nello scoppio. Gli altri quattro, sul secondo elicottero, sono trafitti dalle pallottole degli arabi, degli stessi tedeschi forse. 

Nell'ultima sparatoria muoiono altri due arabi. Un altro arabo viene catturato quando la battaglia ha termine e sono le 0,04. Gli ultimi due palestinesi vengono acciuffati più tardi. 

Il bilancio della strage all'aeroporto è di 15 vittime: i nove ostaggi israeliani, cinque arabi, un tedesco. Ma il totale dei morti a Monaco fu di 17 contando i due israeliani uccisi al villaggio. 

Tre palestinesi sono in mano alla polizia bavarese. Sono i soli superstiti di Furstenfeldbruck. Hanno dai venti ai ventidue anni. Si chiamano Ibrahim Badran, il più giovane; Samer Abdullah, il capo; Kadir el Dnawy. Vengono dirottati in tre prigioni diverse della Baviera: a Straubin, Bernau e Landsberg. 

Le Olimpiadi osservano un giorno di lutto. Poi le gare riprendono. Due atlete israeliane alloggiando nel settore femminile, lontano dalla palazzina di Connollystrasse, sono anch'esse tra i superstiti della squadra di Tel Aviv: Ester Shahamarov, centometrista, e Shlomit Nir, nuotatrice. 

Quando i Giochi riprendono, il 7 settembre, la corsia di Ester Shahamarov per i 100 metri a ostacoli è vuota. Gli israeliani, i superstiti con le bare delle undici vittime, hanno già lasciato Monaco dopo il pomeriggio greve della cerimonia funebre nel grande stadio silenziosamente affollato. 

Il giorno 8 settembre, mentre i Giochi sono ormai ripresi, ventiquattro aerei israeliani bombardano sette aree siriane e tre libanesi nella stessa ora in cui a Tel Aviv vengono inumati i corpi degli israeliani uccisi a Monaco. Oltre trenta sono i morti dell'incursione aerea israeliana. 

Il 15 settembre l'Organizzazione per la liberazione della Palestina, alla cui testa è il leader di "Al Fatah" Yasser Arafat, dissocia ogni responsabilità dai terroristi di Monaco appartenenti all'organizzazione "Settembre Nero". 

Il giorno 29 ottobre, tre guerriglieri di "Settembre Nero" dirottano un aereo della Lufthansa partito da Beirut per Istanbul con venti persone a bordo chiedendo in cambio il rilascio dei tre fedayn catturati a Monaco. L'aereo sorvola Monaco: lo spiegamento di polizia consiglia i dirottatori ad allontanarsi. L'aereo atterra a Zagabria. 

L'aereo salterà in aria, con i venti passeggeri, se i tre fedayn non saranno liberati: questo è l'ultimatum. I tre prigionieri palestinesi della strage di settembre, liberati dal governo tedesco che non ha voluto correre il rischio di un'altra carneficina, raggiungono Zagabria con un velivolo messo a disposizione dal governo federale bavarese. 

L'aereo della Lufthansa con i venti passeggeri, i tre guerriglieri dirottatori e i tre fedayn liberati giunti a Zagabria lascia l'aeroporto croato diretto a Tripoli. Qui il Boeing della Lufthansa conclude il suo volo drammatico. 

Questa volta non ci sono vittime. Ibrahim Badran, Samer Abdullah e Kadir el Dnawy sono liberi.