di Alessandro De Angelis

È il dettaglio che rivela il tutto, inteso come rimozione e finzione, quel "non è stato una catastrofe" pronunciato da Enrico Letta e assunto come base di discussione da tutti (o quasi). Perché all'ombra della "grande rimozione" va in scena il rito, per dirla col poeta, del "tutti coinvolti, tutti assolti", alla fine del quale alla domanda sul "perché si è perso" la risposta resta evasa, in un festival di solenni citazioni: chi il Vangelo, chi lo Spirito Santo, chi San Paolo, ed è davvero un peccato che Marx sia morto e chi lo ha letto non si senta tanto bene.

E allora non c'è proprio santo a cui votarsi se il "primo partito dell'opposizione" si autoassolve non solo rispetto al peggior risultato della sua storia, ma anche in relazione alla minaccia paventata. Per cui si assiste, dalla relazione del segretario e giù per li rami, a una clamorosa divaricazione tra il rischio evocato in campagna elettorale – l'allarme democratico – e il dibattito tra iniziati sul congresso mentre quell'allarme si fa governo: se farlo in quattro fasi, come propone Letta, con epilogo a marzo (sottotesto: Covid e guerra permettendo), se farlo in tempi più rapidi come propone quella parte del partito che vuole Stefano Bonaccini e teme uno slittamento, e quelli del "problema è ben altro rispetto" che propongono una riflessione senza scadenze. Magari auspicando che, di qui all'eternità, spunti un François Mitterrand o un Willy Brandt per una Epinay o una Bad Godesberg più appassionanti del congresso del "tortellino" tra il presidente dell'Emilia e la sua vice, per la serie "c'è rimasta solo l'Emilia".

Quello di Enrico Letta non è il discorso di un traghettatore, perché mai si era visto un segretario che, in attesa di andarsene, gestisce il congresso e suggerisce anche i capigruppo, anzi le capigruppo, e ci risiamo sull'uso strumentale delle donne per dire che si è cambiato tutto mentre non si cambia nulla (le capigruppo c'erano già prima), prassi già sperimentata con la precedente sostituzione. Per molto meno (rispetto a Giorgia Meloni a Palazzo Chigi) si sono dimessi leader, anche solo per forzare in tal modo la discussione restituendo ad essa autenticità e una sana drammaticità come nel caso di Walter Veltroni che se ne andò sua sponte dopo una sconfitta amministrativa minore, nonostante un risultato alle politiche che oggi appare un miraggio. Altri furono letteralmente cacciati come Pierluigi Bersani pur essendo arrivato primo, o processati come Matteo Renzi perché quella era stata la sconfitta peggiore della storia della sinistra, prima del nuovo record negativo.

E invece stavolta tutt'attorno gli altri, ognuno con le sue sfumature, stanno al gioco perché "il problema è l'identità", "occorre rifondare", "ricostruire", a partire dall'opposizione, che deve essere "seria", ci mancherebbe, ma anche "intransigente" "aprire un percorso costituente", ovviamente "ripartire dalle idee e non dai nomi", come se i nomi non fossero idee che camminano sulle gambe degli uomini, insomma si può discutere di tutto fuorché questo meccanismo sempre uguale a se stesso, fondato sulle correnti, parola neanche citata non a caso, in attesa che le medesime si mettano d'accordo sul successore. E con tutto il rispetto il tema donne agitato molto da Enrico Letta è perfetto per dare il senso di una novità senza cambiare niente nella sostanza, anzi stabilizzando il tutto. In questo caso Elly Schlein (il nome che sembra avere in mente), che darebbe l'idea di uno spostamento a sinistra del partito, garantendo il rientro di Bersani e la benedizione di Romano Prodi. E a prescindere da come andrà a finire il calcolo stesso rivela l'irriformabilità del meccanismo.

Eppure alla fine della discussione senza pathos, la risposta sul "perché" inconsapevolmente arriva, se il cronista, rileggendo il taccuino, si accorge che la parola "bollette" resta innominata così come le parole "crescita", "produttività", "redistribuzione" (del potere e della ricchezza), a conferma che il problema è la separatezza dalla realtà che ha reso il "primo partito dell'opposizione" l'ultimo nelle periferie geografiche ed esistenziali. E arriva anche misurando il gap logico-politico tra alcune dichiarazioni che accennano all'autocritica, e gli atti conseguenti perché, così come all'allarme democratico non ci credeva nessuno, non ci crede nessuno neanche al "percorso costituente". Si tratta solo della più classica delle riedizioni di quelle "leggi bronzee" dell'oligarchia per cui l'obiettivo del gruppo dirigente riesce è l'autotutela di sé, ogni volta elaborando una teoria alla bisogna, rispetto all'obiettivo per cui l'organizzazione è nata. E c'è chi se lo chiede pure: "Ma perché qualcuno dovrebbe appassionarsi a un congresso così se non si dà il segno di aver imparato una lezione?". Però la domanda resta appesa, come lo Spirito Santo.